di Gabriele Frasca

Gabriele Frasca è nato a Napoli nel 1957. Ha pubblicato in versi: Rame (Milano 1984 e Genova 1999), Lime (Torino 1995), Rive (Torino 2001) e Prime. Poesie scelte 1977-2007 (Roma 2007).
I suoi romanzi editi in volume sono: Il fermo volere (Milano 1987 e Napoli 2004) e Santa Mira (Napoli 2001 e Firenze 2006). Sono apparsi anche suoi testi teatrali (Tele. Cinque tragediole seguite da due radio comiche, Napoli 1998) e svariati saggi, fra cui: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (Napoli 1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (Napoli 1992), La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (Genova 1996), La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale (Roma 2005) e L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Roma 2007).
Con il gruppo musicale «i ResiDante» ha inciso il cd Il fronte interno (Roma 2003). Ha tradotto Philip K. Dick (Un oscuro scrutare, Napoli 1993 e Roma 1998) e Samuel Beckett (Watt, Torino 1998; Le poesie, Torino 1999; Murphy, Torino 2003; In nessun modo ancora, Torino 2008).
Dal 2008 al 2010 ha pubblicato a fascicoli, solo per sottoscrizione, il suo terzo romanzo Dai cancelli d’acciaio (che apparirà in volume unico agli inizi del 2011).
Ha curato nel giugno del 2008 per il Festival del Teatro di Napoli le messe in scena de L’assedio delle ceneri.
Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università degli Studi di Salerno.

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Che cos’è una forma d’avversione

Articolo postato martedì 21 settembre 2010


Ma via, mica tutta la letteratura si riduce alla saga di vampiri tormentati dall’angoscioso dubbio se succhiare il sangue o schiacciarsi ancora i brufoli, se mai per una massa di adolescenti (o di lettori sempre adolescenti) ai quali, in tempo di crisi economica, neanche par vero di assicurare una vita da non-morti? [Diciamocelo: questi discendenti efebici di Nosferatu sono perfetti per il mondo che stiamo consegnando ai loro lettori. Improduttivi come il ben più tenebroso progenitore rumeno, ma al contrario di costui capaci di procrastinare praticamente in eterno il consumo per cui sono nati]. Certo che no: il sistema letterario, per funzionare, deve ammettere per lo meno, lo accennavo nel precedente invio, una doppia velocità. E se riuscite a far svettare il capo al di là delle pile dei libri di successo, nelle megalibrerie la trovate pure da qualche parte quella letteratura che è stato necessario di contro definire «seria» (ma il «serio», suggeriva Lacan, è il «seriale»), che poi è quella di cui si occupano le pagine appena un po’ più austere dei giornali, le trasmissioni radiofoniche da salotto, i tediosi telepremi e le estenuanti sagre cittadine. E non è questo già un segno, ne avessimo ancora bisogno, di come funziona il sistema letterario? C’è poco da girarci intorno, vampiri o non vampiri, si appartiene tutti alla stessa famiglia di morti viventi; e se il teenager è stato per anni, già all’indomani della seconda guerra mondiale, il consumatore ideale, e a tutti è stato chiesto di restare adolescenti nello spaccio delle merci (culturali o meno), ebbene in tempo di recessione, e di scarsità di risorse, è fin troppo facile capire quanto sia il consumatore a dover essere consumato. Non si vendono libri nei megastore, ve ne sarete resi conto da un pezzo, ma lettori.

E poi che cosa mai dovrebbe distinguere i libri impilati da quelli sdegnosi del loro isolamento? Le storie sono storie, tutte storie, e il modo in cui occorre raccontarle, per chi non può che essere ridotto (negl’intervalli più o meno improduttivi) a mandarle giù a bocconi, finisce con l’essere lo stesso. Un vampiro, un personaggio storico, un piccolo perverso o un malavitoso sono fatti della stessa pasta, che è quella della grammatura (la crisi è crisi) sempre più inconsistente della carta. Qualcuno giustamente se ne rallegra, come fosse la fine, anzi il fine, di quel vasto processo di democratizzazione che la borghesia affidò proprio al suo più agguerrito mito fondativo, quello cioè che doveva darle un nome. «Occorre sottolineare la necessità di creare una letteratura destinata a un lettore veramente di massa, porre fine con maggior coraggio ai privilegi letterari dei pochi e, servendosi di tutti i risultati tecnici della vecchia arte, elaborare una forma adeguata, comprensibile alle vaste masse». Quello che avete appena letto non è l’esergo posto in testa all’organigramma di Segrate, ma la risoluzione del 1925 del Partito Comunista Russo (avevano all’epoca i funzionari sovietici il loro bel daffare con le avanguardie, e ancora non si erano riorganizzati con la legge del taglione del realismo socialista). Il processo di democratizzazione letteraria, come vedete, è dunque marxianamente inarrestabile; quello delle istituzioni sociali decisamente meno. Saremo pure, non dico di no, in un’epoca in cui il capitalismo ha trionfato, ma per quanto riguarda la letteratura, al pari di ogni altro medium, possiamo da questo punto di vista stare tranquilli: tutto il potere resta ai soviet. Da cui volendo potremmo pure estrarre un corollario: ogni sistema mediatico è un comunismo fantasmatico. E chiudere l’intera faccenda con l’enunciazione del teorema principale (quanto meno ai fini di questo discorso): il sistema letterario, per quanto a ragione rivendichi la propria primogenitura, è oggi il settore minoritario dove si relegano le obsolete minoranze alfabetizzate ancora presenti in quello mediatico. Eppure, malgrado tutto, e forse più che mai ora che con malcelato piacere ci sentiamo ridotti in pochi, ci costa per davvero fatica regolare una volta per tutte i conti con la letteratura e la sua promessa di spettrale (i vampiri sono a valle del processo, non a monte) promozione sociale.

No, non rinunceremo facilmente al sempre più generoso senso di appartenenza alla cerchia di «intenditori» cui si è ridotta quella «repubblica delle lettere» che per prima diede uno stato, un primo stato, a quello che invece da terzo raccoglieva una classe senza nome (e nume, e nomos). E perché mai dovremmo farlo, se vi sono anche ora feste e riconoscimenti per tutti? È umanamente comprensibile, non dico di no, soprattutto adesso che appare tanto a rischio di declassamento la piccola borghesia che ancora ritiene di scorgersi riflessa nel sistema letterario, e che solitamente tenta le proprie modeste carriere corporative nei suoi interstizi (è una delle regole non scritte del libero mercato: più si riducono i consumi più si estende la filiera degl’intermediari) o nelle rissose e massoniche quanto basta, e in proporzione alle caselle del Monopoli conquistate, consorterie universitarie. C’è un posto se vogliamo per ciascuno di noi nello spaccio d’immaginario del Sacro Romano Emporio, e nelle sue prebende posticce, e per molti di noi, quanto ai livelli di autoconsapevolezza, basta il valore aggiunto di aderire al vecchio medium tipografico per sentirci, e dichiararci, fuori dalla messa-in-stato «barocca» che di suo racconta «unica» la classe dei soggetti agli strumenti di comunione. Ah già, noi mica ci si beve il cervello con la tv, noi si legge e si scrive libri... come se bastasse questo a fare di ciascuno di noi un bel tipetto sveglio, malgrado quanto sia stato istupidente nei secoli il ronron tipografico, e come abbia avuto origine la storia del romanzo, forma principe di quella che sarebbe divenuta la comunione borghese, dalla denuncia stessa del suo sonnambulismo (e a tempo debito, quando cioè la parola romanzo voleva dire qualcosa di molto più simile alle storie dei vampiri da cui è partito questo invio). Quante volte ancora dovremo rileggerci il Don Chisciotte prima di venirne a capo? E per quanto tempo, ridotti in quelle che Lévi-Strauss definì non a caso «parchi nazionali del pensiero selvaggio», eviteremo con cura di chiederci per chi mai, e a quale scopo, un noto quotidiano economico continui a pubblicare il suo inserto culturale ogni domenica? Non possiamo fingere di essere nati un minuto fa, nella serra dove continua a crescere stenta la letteratura, ignorando che i lettori abituali di quel giornale, i piccoli e grandi imprenditori nostrani così come li consociano (e Dio se li conosciamo!), non degneranno certo di uno sguardo quelle pagine, nel giorno del riposo, non loro certo (che si sa che, come Marchionne, lavorano senza tregua, senza ferie e senza diritti), ma di Nostro Signore. E allora per chi, o per mettere in contatto chi con chi, quella testata continua a fingere, un giorno di festa dopo l’altro, di non accorgersi dello scollamento che esiste oramai fra la casta imprenditoriale dichiaratamente (e orgogliosamente) postalfabetica e la piccola borghesia che, per non sentirsi proletarizzata, continua a dar vita a uno straccio di sistema letterario incistato in quello ben più pervasivo, e a suo modo persino meno truffaldino, che chiamiamo mediatico?

La faccenda è assai complessa, perché via, lo sappiamo (altrimenti non stareste nemmeno a leggermi su un blog), un medium vale l’altro, e tutti, dico tutti, si radicano nel discorso, quello cioè del legame sociale in atto; e se è facilmente verificabile che ci sono programmi televisivi di gran lunga più narrativamente gratificanti dei romanzi che fanno come suol dirsi la media letteraria, è altrettanto sotto gli occhi di tutti che in questione è l’intero sistema di condivisione di credenze che funge in ogni messa-in-stato da collante. Non importa con che mezzo sia detto, ciò che deve essere detto, ma che sia detto. E se quanto deve essere detto non può che essere la lallazione che ripete il nostro nome, fino a farci scivolare nel torpore giusto, allora è importante che quel mezzo faccia di tutto per nascondersi, se mai dichiarando nell’ultimo sussurro, che è proprio quello che ci mette a nanna, che di suo, ecco, è quasi come se non ci fosse, dal momento che altro non si prefigge di riprendere, o raccontare, che la «vera vita», nuda e muta come si dice essere, e pronta all’incontro con le «vaste masse». La tv verità vale da questo punto di vista il romanzo reportage; «è soprattutto la letteratura», ricordavano Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, «ad aver coltivato questo equivoco con il vissuto» tipico della narrazione «insieme crudele e lamentosa, piagnucolosa e soddisfatta» del «romanzo del giornalista». Di esempi ne abbiamo così tanti, che non vale nemmeno la pena sprecarci fiato; lasciamo pure che l’ultimo (in ordine di tempo) teorico della letteratura in debito di ruolo se ne invaghisca, e andiamo avanti. Perché riorganizzare ad arte una qualsiasi porzione di mondo, anche e soprattutto quando l’artificio è nel dire che non c’è artificio, non è mai un procedimento neutro. I segni, scrivevo sulla quarta di un saggio che ho dedicato qualche anno fa alla «letteratura», sono sempre legami, e leggi, anche quando parrebbero messi insieme così, per dilettare (e non c’è cosa che diletti di più di una denuncia «piagnucolosa e soddisfatta»): ricoprono i corpi e stanno fa i corpi, e il modo in cui i loro reticoli ricoprono e stanno fra questi, determina la vita stessa di ciascuno di noi.

I sociologi che si occupano di media definiscono, sulla scorta di Habermas, questo sistema di condivisione di credenze «la sfera pubblica», e hanno buon gioco nel vederla espandersi la prima volta col diffondersi della stampa periodica (attenzione: sono esattamente gli stessi anni dell’insorgere del sistema letterario, che nasce appunto per un continuo e «periodico» scalzarsi di merci, non già spettrali in questo caso ma spettralizzanti... perché in letteratura, l’avrete capito, sono proprio i vampiri a essere in questione). Sull’asse coprolalico che va dal «flot de merde» flaubertiano al «copriright» joyciano, ho preferito nel precedente invio sgonfiarvi il palloncino di questa presunta sfera in un più marxiano, ma anti-edipico, «flux de connerie», in quel flusso cioè di stronzate necessarie a che si faccia comunità (e gestione dei ben più importanti flussi del lavoro e della conoscenza) quando questa non è più garantita dall’ingerenza, diciamo pure «classista», del sovrannaturale, che affidava nelle forme dispotiche di tipo asiatico a ciascuno il suo posto inalienabile nello sfruttamento delle risorse di questo mondo, e di quell’altro. Rileggiamocelo allora ancora una volta per davvero, il Don Quijote, e mettiamo pure da parte la «macchina di spropositi» scudiero-cavaliere che tanto ci diverte, per passare invece al vaglio i comportamenti di comprimari e comparse, tutti bravi lettori eh, e avremo sùbito un’idea chiara di come funziona, in un mondo amministrato che ha ricacciato Dio nel silenzio della sua solitudine appagata, la gestione comunitaria del «flux de connerie» che dovrà ricadere infine su ogni singolo «desocupado lector».

Ma adesso vorrei invitarvi a rileggere l’intera questione con un altro paio di occhialini, quelli particolarmente utili (data la situazione nella quale ci dibattiamo) di un economista contemporaneo. Naturalmente quando ne cito uno, l’avrete notato, non ve li scelgo mai fra gli sparuti marxisti (o neomarxisti) rimasti a condolersi della barbarie, sarebbe facile gioco; anche se in questo caso non ho scomodato il solito ultraliberista di turno (con la crisi, capirete, sgomitano per raggiungere le poche scialuppe, piuttosto che ballare, come insistono a fare qui da noi, il ragtime, o la giga celtica, nel salone delle feste) ma un eclettico (così si dice) d’ispirazione keynesiana, e dunque propenso a strategie basate sui tempi lunghi (cioè su un minimo di pianificazione). Mi riferisco a Michel Aglietta, professore emerito di Paris X e grande studioso della moneta (del quale mi sentirei di esortarvi a leggere, se qui da noi l’avessero tradotto, almeno il libro scritto nel 2007 con Laurent Berrebi, Désordres dans le capitalisme mondial). In un suo recente intervento significativamente intitolato «Arringa per una lunga storia», per giungere alla conclusione che l’attuale capitalismo mondiale «è un confronto asimmetrico di politiche di potenza» (eh già: Alle gegen Alle) «intermediato da interdipendenze finanziarie» (a questo, dài e dài, si è ridotto il facile mito della globalizzazione, una volta infrantasi in quella che forse verrà ricordata come la rivoluzione industriale cino-indiana), il nostro valente economista si è sentito in dovere di puntualizzare che cosa può definirsi capitalismo sulla base dell’insegnamento della storia. E non è, per inciso, già un sintomo il fatto che uno studioso si senta oggi costretto a tornare a definirlo, il capitalismo che non conosce più frontiere né contrasti? [Traggo questo saggio da uno dei volumi de Le Cercle des économistes, organismo collettivo costituito da trenta docenti del settore per lo più francesi ma di varia ispirazione, sebbene tutti assertori del libero mercato, che sta attualmente monitorando la crisi con estrema puntualità, riunendosi ogni anno a Aix-en-Provence per dare alle stampe poi più quaderni di lavoro. Quello in questione, nel quale mi sono imbattuto a fine agosto a Parigi, ha un titolo che mi ha fatto sobbalzare, La guerre des capitalismes aura lieu... e come se non bastasse, mi sono pure ritrovato di faccia, quando ho rigirato il volume per leggerne la quarta, questa battuta assai horrorshow, per dirla col buon Alex, attribuita al settimanale gratuito, ora divenuto un portale, Économie Matin: «Un documento che occorre leggere. Non si potrà dire: “Non lo sapevamo”». Brrr].

Per Aglietta il capitalismo, sin dai suoi prodromi nel XIII secolo, «è sempre stato al contempo globale e inserito in strutture sociali che costruiscono differenziazioni sempre rinnovate». Il capitalismo dunque trae il proprio dinamismo da queste differenziazioni (Deleuze e Guattari le avrebbero chiamate «riterritorializzazioni», conseguenti alle «deterritorializzazioni» dei suoi flussi, di loro globalizzanti ma solo perché in cerca di nuovi limiti da aggirare); risulta pertanto «poco pertinente pensare a dei processi di convergenza verso una situazione ideale in cui il mondo intero diverrebbe omogeneo» (che poi è l’aspirazione nemmeno tanto segreta, ma favolosa quanto il mondo dei vampiri, del cosiddetto capitalismo anglosassone). In secondo luogo, occorre ricordare a chi ama dimenticarlo che il capitalismo e l’economia di mercato non coincidono. «Il capitalismo è una forza di accumulazione» che innanzi tutto non si autoregola (addio invisibile intervento teologico) né mai converge su un modello ideale (addio rassicurante automatismo teleologico): «l’ineguaglianza è la sua essenza». In terza battuta, «non vi è alcuna indipendenza, né ancor meno primato, dell’economia, segnatamente perché la moneta è un bene pubblico», e in quanto tale emanata (e dunque dipendente) da una sovranità. Il lavoro salariato, ne consegue, non può ridursi a merce, essendo regolato da norme sociali che hanno radici nelle «culture» convalidate dalle sovranità dei singoli Stati. [Se il solito infaticabile Marchionne potesse delocalizzare in Cina, visto quanto uno stato dispotico asiatico divenuto capitalcomunista sa come trattare gli operai, lascerebbe i pazienti serbi fuori dalle fabbriche, mica solo i tre terroristi della FIOM di Melfi]. Risulta dunque evidente che nelle dinamiche a lungo termine dominano le istituzioni, non già le «strutture di mercato». Ma se a regolare l’insieme dell’economia sono per davvero le istituzioni, non è che al loro interno s’intraveda un centro di potere (eh no, quello non si sa proprio dove trovarlo), quanto piuttosto quelle che Aglietta non esita a definire «croyances collectives». Il bene comune dipende dunque da tali «credenze» che, se hanno la forza di divenire «collettive», acquisiscono il ruolo (avrebbe detto Douglas North) di «istituzioni informali» che lo Stato via via incorpora in quelle formali, non certo al fine di acquisire ricchezza ma potenza. Le politiche di potenza insomma, attualmente come sempre sulla via del conflitto, traggono in verità linfa da quanto c’è di più inconsistente (se, per fare un solo esempio, l’ideologia più nociva è sempre stata quella che si dichiara nient’altro che vera vita, nuda e muta; e se la forza reale di un’egemonia, ricordava Jacques Sapir a proposito del cosiddetto, e già vanificato, «consenso di Washington», risiede nella sua capacità di mascherarsi). Un autentico «flux de connerie» in piena scorre dunque fra l’impotente ricchezza delle merci spettrali e il potere miserabile (e alquanto vampiresco) della condivisione delle credenze. Si chiama immaginario (sin da quando ha disperso per la prima volta il suo calore, oh non da uno schermo, ma dalla catena di montaggio tipografica), e a furia di starsene fra i corpi, e non solo fra le merci (Marx, lo ricorderete, lo ha scritto assai per tempo), li ha rivestiti col suo bozzolo al punto che, a scavarci dentro, neanche più il cacchione di un bruco ci troviamo, altro che angeli da sfarfallare postumani.

Che cosa vuol dire? Che non c’è sistema mediatico, e dunque in prima battuta letterario, che non sia un intrattenimento (cioè una messa-in-stato) attraverso cui mettere in forma le istituzioni che dovranno esercitare potere, e gestire dunque ricchezza. «Voi siete qui», recitava come il piano di mobilitazione generale (o evacuazione) di una struttura un mio precedente invio, e anche se non vado errato (e mai titolo fu più pertinente) un volume collettivo di prove di giovani scrittori. Ma proprio non riusciamo a capire a che cosa serve persino un settore in perdita, fatti salvi i soliti vampiri, come quello letterario? Credete veramente che le scelte editoriali siano, come vogliono farci credere, dettate dal mercato, e mettano dunque in questione la ricchezza? [«Occorre vendere libri a palate, oppure niente!»... già, e dove li troverebbero mai i lettori giusti per ritornare almeno sulle spese, gli editori da caricatura in grado di pronunciare una simile battuta, con tutti i volumi che escono ogni anno? Non è nemmeno pensabile che prevedano utili per ciascuno di loro]. Un sistema mediatico si configura in realtà intorno alla raccolta e allo spaccio delle «credenze collettive», e non ha dunque a che fare con la ricchezza, ma con la potenza (che regola e distribuisce la ricchezza). E come si ottiene potenza, se non beneficiando a pioggia, nel nome del bene comune, che è il senso comune, i credenti delle «credenze collettive» con quelle stesse credenze collettive? Proviamo allora a guardare in azione, anche solo di volata, l’intreccio di micropoteri che residua del vecchio glorioso sistema letterario, perché se state leggendo questo blog si suppone che il discorso v’interessi più degli altri. Persino il più esile dei lettori (se un anchorman di turno gli parlerà del libro che sta leggendo, o che vorrà leggere), o l’ultimo (a partire da me) degli scrittori (quando si troverà citato a fine articolo con altri sette o otto anonimi cui regalare infine un nome), ne trarrà il giusto tornaconto: il proprio posto nella credenza (spacciato però per il proprio posto nel mondo). Per non parlare degli estensori delle pagine culturali, cui manco pare vero di «non sapere nulla», nulla che non sia risaputo, e di essere «esigenti», come ogni buon parassita secondo una definizione di trent’anni fa di Michel Serres. C’è insomma un posto per tutti, questo recita ogni credenza, e Dio non voglia non metterci il culo per tempo, con il rischio che te lo soffi un altro, tanto ciascuno di noi è solo x valore di variabile (è l’«introversione del sacrificio» di cui parlarono in pieno sogno americano Horkheimer e Adorno), e Tizio vale Caio nel convulso blabla che funge da collante al sistema. Ma su questo occorre essere chiari: a nessuno di noi, persino a chi ritiene di possedere di natura o di astuzia una voce stentorea, è assicurata la parola. È il posto che ci è stato assegnato che ci parla. Ed è una voce che giunge dal profondo, coi suoi enunciati apparentemente nascosti, nel mentre si annaspa per restare a galla.

Eccoci qua, potrebbe dire qualcuno, tutti belli e decostruiti a furia di rimorsi, ma sostanzialmente (come spesso avviene nelle decostruzioni) al punto di partenza! Tanto vale allora seguitare a occupare il proprio posto, anzi a occuparne quanto più se ne può, e prendere parola al momento opportuno, doppiati o meno, per trarne almeno un vantaggio, per noi stessi o per quelli in cui crediamo. È la vecchia questione fra il cinico e il buffone cara a Lacan, su cui prima o poi converrà ritornare. Eppure un modo, non per sottrarsi a questa voce, ma per modificarla, cioè modularla altrimenti, c’è, c’è sempre stato, e ogni volta che si è manifestato ha avuto a che fare con quella che, in mancanza di altre definizioni, continuiamo a chiamare arte, a partire da quella del discorso, che forse è la prima, e primitiva, formalizzazione che persegue un depotenziamento del flusso delle credenze collettive. Si è avuto, e in parte si continua ad avere (basta dare un’occhiata, in campo figurativo, al cosiddetto «mercato dell’arte»), sempre un bel daffare nel riallinearla al sistema che gestisce la potenza: ma l’arte, se stilizza e ripete (come fa l’artigiano a detta di Gombrich), non può fingersi natura, come invece è costretto a fare (se vuole essere tale) ogni sistema sorto a regolare e far circolare le credenze collettive chiamate a mettere in forma una sovranità (ogni credenza collettiva, se vuole essere creduta collettivamente, non fa altro che ripetere questo: «io sono natura»). L’arte denatura e depotenzia, perché (per nostra fortuna) è sempre «degenerata», e finisce il più delle volte, in piena assunzione collettiva di quanto opportunamente omogeneizzato, come un osso in gola. In che modo ottiene tutto questo, un’opera dico e non un artista? Presentandosi per quello che è: una «forma d’avversione» che si mette di traverso al fluire del senso comune. Un enunciato, diceva Deleuze commentando il metodo archeologico di Foucault, «rimane nascosto se non riusciamo a elevarci sino alle sue condizioni di estrazione». Ma se un’avversione prende forma e fa fluire via i discorsi di copertura lasciando, come una piccola diga, a secco l’enunciato che si presume nascosto proprio lì dove affiora dal profondo la voce che ci parla, allora è facile scoprire come in ogni epoca tutto, anche ciò che per convenzione si dice occultato, sia detto con estrema chiarezza. Una forma d’avversione mette in chiaro ciò che, sulla presunta naturalità dove scorre opaco il sistema di credenze del senso comune, si staglia in verità chiaro. Non c’è nessun discorso da rivelare (cioè, alla lettera, svelare e occultare di nuovo), su questo l’arte non ha mai avuto dubbi: è tutto sempre sotto i nostri occhi. [Persino, che so, l’Apollo di Belvedere non è per nulla un’idealizzazione, che rimanda al solito mondo che non c’è che spesso si attribuisce (per depotenziarla) all’arte, o lo è per noi che ne abbiamo disimparato la lingua. È piuttosto una forma che si mette di traverso alle sue credenze collettive per lasciare allo scoperto l’enunciato del suo legame sociale. Da ciò possiamo derivarne un utile corollario: non si fa storia dell’arte, ma con l’arte].

Mi è capitato, tanto per chiudere con il solito accenno personale, di presentare un’anteprima del romanzo a nome del quale sto parlando in una sorta di meritevole libero seminario all’Università (non in quella dove lavoro, ma in una di quelle della città dove vivo). Dopo aver fatto ascoltare il file di una piccola porzione dell’ultimo capitolo (già, Dai cancelli d’acciaio apparirà anche come audiolibro), ho intrattenuto un po’ l’uditorio sul caso Moro, citato in quel passo in più di una battuta, senza certo costituirne l’argomento principale. Nel giro di poco si è creata una tensione stupefacente, come se in un silenzio divenuto persino un po’ drammatico stessi rivelando qualcosa di cui fossi a conoscenza solo io, se mai grazie all’imbeccata di una non meglio identificata gola profonda dei servizi segreti deviati dell’epoca, magari lo stesso Gerardo Quagliarone (che è poco più di una comparsa in quel romanzo, un vecchio entusiasta militante di Gladio riconvertito a cómpiti meno onerosi, che nel mondo zero, nel mondo in cui viviamo, vi assicuro che non esiste). Ora, io non è che avessi attinto le mie informazioni sull’argomento da chissà dove, né certo mi facevo bello delle rivelazioni un po’ gridate che appaiono in quelle pubblicazioni di successo che potremmo compendiare con titoli tipo La verità sul caso x, oppure Tutto quello che non vi hanno mai detto su questo o su quest’altro; che poi il più delle volte sono solo la gestione e il package dell’acqua fresca. In verità non avevo fatto altro che controllare la bontà della mia memoria (capirete che chiunque abbia vissuto quel periodo, l’episodio lo ricorda fin troppo bene) sulle ricostruzioni del caso a portata di tutti, quelle insomma che appaiono sui libri di storia generalisti e persino in una serie di siti consultabili in rete. Eppure devo confessarvi che io stesso ho sentito emergere qualcosa di angoscioso e nascosto, come se stessi rivelando chissà quale segreto che poteva mettere a repentaglio la mia stessa sicurezza, anche se in realtà stavo solo ricordando quanto quel caso abbia sfiorato (più o meno) i destini di tanti attori attuali della scena politica italiana, in uno schieramento come nell’altro. Malgrado gli ectoplasmi di una seduta spiritica da commedia all’italiana e i frammassoni incappucciati come in una risposta casereccia ai polpettoni spionistici degli anni Sessanta (eh già, sembra quasi di sentirla la risata psicopatica che accompagna la solita battuta del grande capo dell’organizzazione: «Diventerò padrone di mondoooo»), cose che insomma avrebbero dovuto indurre al riso, seppure amareggiato, l’aula dove si svolgeva quell’incontro ha d’improvviso assunto un aspetto sinistro. La voce che mi parlava continuava a non essere la mia (era addirittura per scelta una voce pubblica, dal momento che mettevo in fila enunciati che non sono mica nascosti, e possono essere estratti da chiunque), eppure oramai era come se si modulasse con un timbro diverso, magari quello da basso buffo che ho attribuito al povero Gerardo Quagliarone, colpito dai tagli di uno Stato irriconoscente.

Cercherò di far capire meglio il concetto uscendo dall’aneddoto. Il personaggio gentile che vedete raffigurato nell’immagine che accompagna questo invio è Alfred Deller, il più grande controtenore del Novecento (vi parrà strano ma anche la sua voce scorre nel romanzo). La sua è una storia straordinaria, ed è un peccato che nessuno abbia pensato di scriverne una biografia documentata (c’è un vecchio introvabile libro in francese, e poco più), perché ha a che fare con la seconda guerra mondiale e l’obiezione di coscienza dei cattolici inglesi (non di tutti: Burgess era nel Pacifico), con le bizzarrie del caso (che lo fecero imbattere, già trentenne e privo di preparazione musicale adeguata, in Michael Tippett), con l’esaltante storia del mitico «Third Programme» della BBC (che inaugurò nel 1946 le sue trasmissioni proprio con un’opera di Purcell interpretata dal nostro), con lo slancio dei grandi musicisti inglesi postbellici (Benjamin Britten gli affidò il ruolo di Oberon nel suo Midsummer Night’s Dream del 1960), con la lotta contro i pregiudizi (un cattolico renitente alla leva che canta con la voce di un castrato nell’omofoba, anglicana e gloriosa Albione appena uscita dall’abbraccio di Churchill e dal machismo bellico?), e soprattutto con la cosiddetta rinascita della musica antica e barocca (prima con le sue incisioni per l’etichetta Vanguard, poi, col figlio Mark e fino alla morte, con l’indimenticabile produzione del Deller Consort per Harmonia Mundi). Ora Deller, per quanto scandalosa poté apparire all’epoca la sua voce, aveva ben ragione a dichiarare che quella particolare tessitura esisteva in realtà da sempre, e non aveva a che fare con la castrazione (o la scelta sessuale): in Inghilterra, in epoca elisabettiana e barocca (Purcell stesso si dice fosse dotato di una simile voce), si cantava così, e gli unici castrati che calcavano le scene britanniche erano gl’italiani. Anzi per Deller si trattava forse del più antico tipo di voce umana, particolarmente pervasivo se, per dirla con Michael Tippett (che ne era incantato), «nessun dettaglio emozionale può distrarre dalla purezza della sua espressione». Già, ma come ottenerla una voce così apparentemente innaturale e macchinata, eppure malgrado tutto magari primigenia? Modulando altrove, ci ha spiegato più volte lo stesso Deller, la voce del profondo, quella che impropriamente si attribuisce al petto (fino alla grande ostensione fallica del do di certi tenori che mandano in visibilio gli astanti). È una voce di testa, quella del controtenore, poggiata sul diaframma (Deller si spingeva anche più in là e l’attribuiva... alla laringe? no alla faringe), un suono chiaro gestito tutto sul davanti, che impiega per risuonare le cavità del seno frontale. Non è un falsetto, ribadiva, è la verità di una voce sottratta alle profondità viscerali che sono di tutti, e modulata in modo che possa risuonare nella propria testa.

Che cos’è allora una forma d’avversione, che faccia arte e non gestione delle credenze collettive? La macchina vocalica di Alfred Deller, mentre controlla non la voce profonda, che pure la incalza, ma le parole stesse che, se cantano, è solo perché risuonano nelle cavità dove si mescola il pensiero.