di Gabriele Frasca

Gabriele Frasca è nato a Napoli nel 1957. Ha pubblicato in versi: Rame (Milano 1984 e Genova 1999), Lime (Torino 1995), Rive (Torino 2001) e Prime. Poesie scelte 1977-2007 (Roma 2007).
I suoi romanzi editi in volume sono: Il fermo volere (Milano 1987 e Napoli 2004) e Santa Mira (Napoli 2001 e Firenze 2006). Sono apparsi anche suoi testi teatrali (Tele. Cinque tragediole seguite da due radio comiche, Napoli 1998) e svariati saggi, fra cui: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (Napoli 1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (Napoli 1992), La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (Genova 1996), La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale (Roma 2005) e L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Roma 2007).
Con il gruppo musicale «i ResiDante» ha inciso il cd Il fronte interno (Roma 2003). Ha tradotto Philip K. Dick (Un oscuro scrutare, Napoli 1993 e Roma 1998) e Samuel Beckett (Watt, Torino 1998; Le poesie, Torino 1999; Murphy, Torino 2003; In nessun modo ancora, Torino 2008).
Dal 2008 al 2010 ha pubblicato a fascicoli, solo per sottoscrizione, il suo terzo romanzo Dai cancelli d’acciaio (che apparirà in volume unico agli inizi del 2011).
Ha curato nel giugno del 2008 per il Festival del Teatro di Napoli le messe in scena de L’assedio delle ceneri.
Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università degli Studi di Salerno.

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a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce

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Honolulu baby!

Articolo postato martedì 26 ottobre 2010


La voce del profondo, quella che Alfred Deller incanalava nelle vasche di raffreddamento del seno frontale, canta in verità tutti i nostri tessuti, per questo vi si radica il comunitario (senza che vi si decanti il pensiero). Le prime forme di socius sono prelinguistiche e irriflessive, e dunque non meravigli che lo strato profondo di ogni forma sociale evoluta sia sostanzialmente sovrarazionale. Se qualcosa ancora ci individua, ma senza parlarci, è questa voce, modulata ma non articolata. C’è insomma una fase nel processo di ominazione che precede la parola (e dunque l’instaurarsi di una «coscienza di ordine superiore», per usare la teoria della selezione dei gruppi neuronali di Gerald Edelman), ed è già di suo una forma d’avversione, una tecnica, o un’arte. Questa voce che risuona di noi, e con noi, canta in verità il divenire-altro dell’organico che presiede nell’uomo all’artificio primigenio, che è in realtà una prima grande degenerazione, o trasformazione contro natura. Non è il linguaggio, ripeto, che di suo è la degenerazione di una degenerazione, se mai il suo «antecedente neurale» (persino Edelman lo presuppone), vale a dire l’istituirsi nella massa appetitosa che siamo, quanto meno a restarcene nel posto che ci assegnò la natura, di una voce modulata che non è della famiglia cui appartiene la specie, come ci dimostrano i nostri oramai lontani (quanto meno per estensione vocalica) parenti mammiferi. Ragliano, ruggiscono, grufolano, latrano, i membri della nostra famiglia affamata e infoiata, per lo più in modo intraspecifico, per ribadire cioè agli appartenenti della stessa specie l’estensione del proprio corpo, che la pelle nemmeno contiene se s’identifica in verità con una camera d’eco (alimentare o sessuale).

Il verso che emette un mammifero (perché solo ciò che è sonoro, e può dunque vibrare nel corpo altrui, sottrae l’ambiente al mélange di segnali olfattivi che lo rende promiscuo e indifferenziato) è già in qualche modo territorializzante, ma solo nel senso che ciò che (per un vezzo antropomorfico) definiamo territorio è in realtà per l’individuo della specie (che lo perimetra e riecheggia con il suo verso, e per il suo verso) nient’altro che il suo stesso corpo, che assimila e si riproduce. L’individuo di una specie, e a maggior ragione se s’individua nel branco e con esso si muove, si estende fino ai limiti dell’appetibile: il suo verso si alza, identico a se stesso (nessun mammifero va al di là delle poche modulazioni speciespecifiche di presenza, minacciosa o disponibile che sia), per fare corpo con quanto risuona. Per gli animali provvisti di quella che Edelman ha definito «coscienza primaria» (alla base del «presente ricordato» grazie al quale un individuo occupa con qualcosa di paragonabile a un «sé» decrittante la scena fenomenica), la prima possibile territorializzazione di un ambiente è l’immissione del proprio percepire il tempo-del-ritorno (mangiare-e-scopare qui-ora, come là-allora) nello spazio che diviene in tal modo tutt’uno col corpo: si tratta dunque di un’incorporazione, non di una vera e propria territorializzazione. Di contro, e per chiarirci sùbito, un corpo si riduce, come in noi si riduce, all’esiguità dei limiti della pelle (dimenticando insomma quanto sia corpo, e «proprio» corpo, il cibo, e quanto lo sia il sesso) solo se è contenuto in una parola. Il linguaggio, neanche a dirlo, stratifica il socius perché de-sala gli appetiti (nel doppio senso che toglie loro il sale, o trappola olfattiva, e disperde l’immediata localizzazione), e così facendo «scorpora» un territorio dalla prima occupazione dell’ambiente. Perché s’instauri un territorio, e non un corpo camera d’eco, occorre in realtà non contarsi al suo interno.

Ma prima che questo avvenga, e perché questo avvenga, quel verso che estende il corpo in una riserva dell’appetibile, dovrà subire la torsione che possa mettere l’animale in condizione di integrarsi (e dunque sparire) in niente di meno che un complesso ambiente sonoro: il verso insomma deve farsi richiamo (cioè un doppio verso, che si presenti solo annullandosi), per divenire al dunque interspecifico (ecco l’«arte» che sfonda i limiti della specie, e degenera). Non è un affare da poco, per un animale, si tratta di riconoscere nell’ambiente una molteplicità di corpi sonori (piuttosto che di transiti olfattivi), e dunque ben altro che appetito e foia; per acquisire infine la consapevolezza di non essere a propria volta che un corpo sonoro (o «personaggio ritmico»), in grado di risuonare nel verso dell’altro. Quando alcuni dei primati hanno cominciato a modulare la voce, avvezzando dunque il proprio corpo a vibrare in tanti modi diversi (e non nell’unico modo in cui solitamente si «presenta», con il sussultare sul posto del suo verso, un mammifero), sarà stata non dico di no la necessità che spingeva a penzolare fra gli alberi, e poi a discenderne, ma appare fin troppo evidente che si compì in loro un’autentica scelta «artistica», che negò l’originaria appartenenza, e rinnegò la famiglia. Gli ominidi hanno cioè cominciato a modulare il loro verso (di suo un paio di suoni gutturali e nulla più), carpendo fuori di loro, e del loro gruppo, la voce del profondo, nel momento in cui hanno «studiato», cioè mutuato, imitato e adattato, il «ritornello» di quella grande macchina evolutiva che non a caso ha continuato a incantare tutti i biologi che si sono incamminati a ritroso sulla strada dell’ominazione, da Darwin a Ernst Mayr [di cui vi suggerirei, se questo discorso un po’ v’intriga, di procurarvi al più presto l’appassionato volume che questi ha pubblicato addirittura centenario, L’unicità della biologia, perché vi assicuro che vi dirà qualcosa di molto importante, persino imprescindibile, sullo statuto della scienza dei nostri anni]. E questa macchina evolutiva, che Hitchcock non a caso convocò per la nostra apocalisse, sono ovviamente gli uccelli.

Quest’anno che volge al termine, fra i tanti inevitabili anniversari, avremmo dovuto contemplare (ma non mi risulta che sia stato fatto) anche il trentennale di una delle opere più stimolanti e complesse, peggio interpretate, e almeno in Italia più violentate e disperse (anche grazie al consueto pressappochismo editoriale), apparse nell’ultimo scorcio del secolo trascorso: mi riferisco a Millepiani di Deleuze e Guattari (ai cui intenditori non sarà sfuggito quanto deve l’attacco di questo invio). Ora, per gli Stan Laurel & Oliver Hardy della filosofia (come amava definire quel duo lo stesso Gilles Deleuze) il ritornello, proprio a partire da quello degli uccelli, è essenzialmente un «agencement» territoriale [la vulgata italiana suona «concatenamento»; propongo invece qui, perseguendo l’etimo del termine francese, che viene da «gent», e dunque dal latino «genitus», il ben più barocco «congegno», su cui pure occorrerà dire qualcosa]. Perché ci possa essere dunque un «congegno territoriale», occorre non solo marcare un territorio con un «ready made» (con qualcosa insomma di «trovato», e messo a disposizione della degenerazione che lo trasformerà in artefatto) ma entrare altresì nella modulazione dell’intero territorio; sarà dunque necessario che l’animale territorializzante riconosca le marche interspecifiche (ben oltre le tracce olfattive dell’appetibilità), non solo quelle intraspecifiche, e si predisponga dunque, come fanno quegli uccelli che imitano anche i richiami altrui, non tanto ad abitare ma a «sfruttare» un paesaggio sonoro. L’espressivo precede senz’altro il possessivo, ma solo a patto (come accade appunto agli uccelli che prima di «esprimere» il proprio richiamo si «sintonizzano» con quelli di altre specie) di impossessarsi della nota con cui un «altro» fa risuonare il proprio corpo, e gli altrui.

Se è vero che il linguaggio è un parassita che ci viene inoculato, ed è già dunque nel suo nascere discorso sociale (cioè discorso dell’altro), è altrettanto vero che perché questo emerga, imponendo dunque costituzionalmente la disposizione ad accogliersi nell’altrui, gli ominidi hanno dovuto per generazioni (prim’ancora di sviluppare i volumi della scatola cranica, per poi «territorializzare» le aree dette di Broca e di Wernicke) forzare contro natura (e dunque forgiare) il tratto sopralaringeo, per accogliere letteralmente nel proprio corpo un’altra specie. E non è una forzatura di poco conto: l’«oggetto trovato» del ritornello degli uccelli non è difatti solo emissione di un verso più modulato, ma il transito in verità di un suono che impone un continuo cambio di postura (e dunque il lento instaurarsi di un «verbomotore», per dirla col gesuita Marcel Jousse), che a sua volta ingenera l’imprevisto effetto collaterale che rimodella il muso. Nasce insomma prima del linguaggio la voce del profondo (viene sempre prima l’arte, poi si trova l’artificio), e ci accorda a un ambiente sonoro facendoci un po’ per volta degenerare dalla specie. Possiamo anche non crederci, e continuare a cercare ogni volta quello che abbiamo già trovato: ma nel processo di ominazione l’uomo fortunatamente ha rinunciato a se stesso, senza nemmeno attendere la presunta «illimitatezza» della tecnica, o i cantori del postumano.

L’uomo, dunque, comincia la sua «discesa» rinunciando alla sua bella pienezza da mammifero (quella insomma del verso che incorpora), per innestare invece sulla sua stessa mutilazione di animale-in-meno quell’altro che gli ha consentito di sottrarsi all’ambiente (imitare un paesaggio sonoro equivale a nascondersi al suo interno): una territorializzazione, al contrario di un’incorporazione, non è estendersi in un ambiente ma uscirne una volta per tutte per possederlo (ecco perché la stessa spinta che fa un territorio prima o poi lo deterritorializza... altro che essere, e poi abitare: si tratta d’imparare ad avere, e rinunciare). La voce altrui che risuona l’ominide, lo fa solo a patto di negarlo alla sua famiglia. Non è un caso che l’origine dell’uomo, che poi è la nascita del simbolico fra orecchie e muso, è esattamente con quest’ultimo che ha a che fare; perché quando questa voce altrui giunge a riprogrammare la bocca che risputa via con l’aria l’altro (os, appunto), a furia di impetrarle nel suo transito smorfie, la rende (o concia) «viso» (è esattamente la «viseità» di cui parlavano Deleuze e Guattari). È solo a patto che avvenga tutto questo (quando l’ominide si predispone cioè addirittura con il proprio corpo all’altro), che emerge il parassita del linguaggio (che, volendo, aveva ragione Deller, corrisponde esattamente allo sforzo di portare la voce del profondo a risuonare nel seno frontale). Nasce prima una voce che possiede (un richiamo), poi un pensiero da possedere (un richiamarsi).

Il linguaggio, insomma, se non è «proprio» dell’uomo, lo è in un modo più impalpabile (quanto lo sono solitamente i media) di quanto non lo sia a sua volta la voce del profondo, che ha finito difatti col radicarsi nel corpo (un essere umano cresciuto al di fuori di un contesto sociale, lo sappiamo, non sviluppa alcuna facoltà di parola... la voce invece sì, e con tutta la sua estensione e possibilità di modulazione, perché l’ampiezza della scatola cranica oramai è quella). L’una è il fondativo innesto inorganico, l’altro il primo medium (non c’è medium senza supporto, e non c’è supporto che non sia una modificazione innaturale del corpo). La voce del profondo, l’evenemenziale (da un punto di vista evolutivo) divenire-uccello dell’uomo, fa volare via, in un unico battito d’ali, la specie dall’ambiente, e l’ominide dalla sua famiglia animale. Quando giunge il linguaggio, da sùbito come un parassita da inoculare e da tenere in vita per la vita, organizza in realtà in una flottiglia aerea una specie altrimenti condannata, come tante altre, a strisciare sulla terra. Il linguaggio allora è in realtà l’«estraneo» comunitario, o se volete l’«extracomunitario», che deriva dalla messa in comune della prima forma d’avversione con cui ci si è sottratti all’ambiente. È questo il paradosso che, ridotti dalla voce del profondo in aborti di animali (l’uomo è l’unico essere vivente che nasce incompleto), ci raccoglie nel linguaggio: siamo condannati a trascorrere, ventriloqui come siamo, tutta la vita con un estraneo, che non solo presiede al completamento del nostro sviluppo, ma che poi si arroga anche il diritto di parlare i nostri pensieri, sotto i quali si confonde una specie di nota continua, tecnicamente un ostinato, che ripete senza tregua: «vai, vai, vai...». Lo diceva con la solita encomiabile orchestrazione di sussurri Samuel Beckett: «donde / la voce che dice / vivi // da un’altra vita». Facile che, alla prima cosa che non va, si finisca col sentire voci. È un po’ la nostra condanna, dicevo; solo che, se questa non ci venisse com’è giusto comminata, non avremmo mai ultimato la nostra discesa, che ci ha ridotti (o magnificati) in un animale sottratto e un parassita, con qualcosa di mezzo a far da tramite. Da questo punto di vista, come specie, abbiamo per davvero fatto del nostro meglio (non staremmo altrimenti nemmeno qui a raccontarcelo). Ci siamo evoluti... nel superuomo? No, in due mezze cose con l’interfaccia. Siamo tutti poveri diavoli, due-in-uno, e per fortuna.

Oh certo, l’ho presa molto alla lontana, come fanno solitamente i romanzi, visto che qui è a un romanzo che presto voce [da cui desumo il solito corollario che non mi faccio mancare mai: il romanzo, rispetto a ogni altra forma di narrazione, è ciò che prende tutto alla lontana]. Pure era esattamente di questo che volevo parlarvi: della necessità, per adempiere qualsivoglia forma d’avversione, per fare insomma arte, d’inscenare questo mito dell’origine, e continuare dunque il processo di mutilazione (propria) e innesto (dell’altro). Ciò che funziona, come sa ogni coppia che (non) funziona, non è la coppia, ma quella macchina che s’inceppa, e non riesce proprio a farla, la coppia, se non a patto di guastare (l’uno e l’altro), innestare (nell’uno l’imitazione della voce dell’altro) e infine mettersi terza. Stanlio & Ollio e l’ukulele, per intenderci, se ricordate quella formidabile sequenza del ritorno a casa dei Figli del deserto.

Ne avete un bell’esempio nell’immaginetta che ho allegato all’invio. Luca Sossella, che vi è ritratto in compagnia del prestavoce di questo blog, quando l’ha vista, e dunque in quella stessa occasione (che era un’allegra quanto sostanziosa tavolata nella fondovalle del Noce), ha commentato qualcosa del tipo: «Ecco cosa fa l’editore! Guarda l’autore che guarda il mondo». Questa battuta ve la dice lunga sul carattere generoso di Luca, sull’entusiasmo che profonde nel suo lavoro, e su quanto sia solito essere affettuoso (perché solo chi sa, sa dispensare affetti) con gli amici. Perché, lo vedete da voi, io non sto guardando il mondo (così come sono, e senza calzare gli occhiali di Quevedo, o di chi per lui, non sono letteralmente nelle condizioni di farlo). Si resta chiusi nei limiti della propria appartenenza, senza nessun possibile due-in-uno (senz’arte, dunque, né ovviamente parte), se non s’innesta la macchina che possa sottrarre all’ambiente promiscuo dove tutto è godimento che appaga. Luca è su di me che converge lo sguardo, è fuor di dubbio, mentre io guardo... semplicemente la macchinetta che, condannandoci all’istante da cui ci ha liberato, ci ha letteralmente ripreso per quello che per lei siamo: il sotto-sottoscrittore (o sottosotto-scrittore), l’editore (o editùr, talvolta persino nei nostri frizzi epistolari edi-tour, visto che solo un editore può far viaggiare) e Dacandacc (come eravamo soliti fra di noi chiamare, non tanto l’opera, ma il progetto che ci riguardava). Perché fare quest’opera ha voluto dire per ciascuno di noi rinunciare da sùbito alla compartimentazione del lavoro, tanto efficiente quanto ottusa, che garantisce gli attuali prodotti editoriali, e ripensare un po’ al ruolo di tutti gli attori di questa strana messa in scena. Dai cancelli d’acciaio uscirà fra qualche mese nella sua brava bara tipografica, in cui abbiamo pure deciso di lasciar cinguettare un po’ di voci, come non a caso pensava si potesse fare Leopold Bloom mettendo un grammofono su ogni tomba; ma è nato in realtà con un’altra modalità, che ha fatto sì che io e Luca, e io-e-Luca e i sottoscrittori, facessimo sempre due-in-uno, per tutto il tempo in cui l’opera ci ha accomunati.

E giunge finalmente l’occasione di spiegarvi, in un inciso, come mai questo blog sia chiuso ai commenti. Nell’unica occasione in cui per errore è rimasto solo per un giorno aperto, qualcuno celato dietro il divertente nick di «Coscienza Remota» (che poi di suo, se ci pensate, sarebbe una bella definizione di rete), a fronte di quanto si argomentava in quell’invio (era il secondo, quello intitolato «Saluti dal Sacro Romano Emporio»), non ha trovato di meglio che fregarsene del tutto dei suoi contenuti (e dire che si affermavano cose che potevano senz’altro essere ribattute), per porgere, direttamente a me (non al luogotenente di una narrazione), una domanda di questo tipo (traduco a parole mie perché non ricordo l’esatta formulazione): «Che senso ha pubblicare un romanzo che, con le sue uscite a fascicoli, dichiarava di prendere a bella posta distanze dalle modalità della vecchia editoria?» [Sottinteso: «Sento puzza di mercato e del sistema letterario che dici di rifiutare. Ti ho preso in castagna!»] Ecco: uno dei motivi per cui questo blog non vuole commenti è che, nella maggior parte dei casi, questi non si attagliano mai a quanto lì è esposto (e che dovrebbe essere in realtà l’argomento da dibattere), ma chiamano in causa direttamente il Pinco Pallino di turno che ha scritto l’invio. La personalizzazione è, come si sa, solo la miccia, dopo di che il flaming fa il resto, e si finisce in un baleno a congiungersi al coro di reciproci insulti che fa da tempo la trama discorsiva di questo disgraziato paese. Di esempi ne avete quanti ne volete. Ma non basta.

Talvolta alcuni amici si divertono a segnalarmi l’infuriare di qualche polemica in rete che mi riguarda (non sono mai riuscito a capire perché nei cosiddetti blog letterati si parli sempre con estrema veemenza di Tizio e di Caio, il più delle volte senza nemmeno averne letto le opere, e basandosi per lo più su quanto ne dice il primo soggetto supposto sapere in transito). Ho scoperto delle cose su di me divertentissime. A detta ad esempio di un Tizio assai determinato, sarei il dominus (?) di «Alias» (??) e avrei pertanto lanciato (???) Saviano (????). Ho letto e riletto il nome e cognome cui si attribuiva tutto questo, e ho anche controllato in rete se non ci fosse un omonimo che potesse vantare una simile capacità d’intervento sui salotti letterari italiani (i miei sospetti sono allora caduti, memore della definizione cara alla cultura tedesca di «letteratura culinaria», su un tale Gabriel Frasca, chef italoamericano a quanto pare assai sulla breccia). Un altro invece, parlando di traduzioni, magnificava la prima versione nella nostra lingua di Molloy (che si deve a Piero Carpi de’ Resmini), sentendosi in dovere di aggiungere: «nulla a che vedere con la brutta traduzione di Gabriele Frasca». Su questo devo amaramente concordare con l’ignoto critico: la mia versione di Molloy è la peggiore che ci sia, visto che non c’è (purtroppo non ho mai tradotto questo straordinario romanzo di Beckett). E via così. Ora, capirete, che per il tipo di prodotto che volevo offrire ai lettori del blog, cioè quattro chiacchiere su quanto è emerso in sette anni di lavoro (perché un romanzo, per come la penso io, dopo aver preso tutto alla lontana, o converge attraverso la sua macchinetta sul mondo, o si limita a dare una sgrassata ai fornelli di casa), non mi andava proprio di scivolare sul livello personale, con il rischio di passare tutto il mio tempo a rintuzzare il sentito dire su un nome e cognome di cui io stesso, come tutti, non so che farmene. Quelli che state leggendo, ve ne sarete accorti, sono alcuni piccoli saggi di accompagnamento a un’opera, o se volete le sue vasche di decantazione; il che vuol anche dire che quando il romanzo apparirà nella sua veste definitiva, questo blog non avrà più ragion d’essere, e chiuderà. Se ho accettato di animarlo, è per proseguire l’iniziale sforzo comunitario dei Cancelli, sfruttando questa volta la caratteristica a mio parere più interessante della comunicazione in rete, vale a dire la modalità «copyleft». Tutto a portata di tutti (ma a patto di cercarlo), e del libero rifiuto di ciascuno... come nella vita. Quanto poi alla necessità di cercare qualcosa, piuttosto che trovarla già preconfezionata, ciascuno la pensa come gli pare. Chi cerca trova, certo, e chi trova senza cercare, vuol dire solo che se l’è cercata.

E torniamo dunque al funzionamento del due-in-uno, perché, una volta formulata la domanda, mi sento comunque in dovere di una risposta alla Coscienza Remota. Avevo già ultimato la prima stesura dei tre capitoli iniziali (il romanzo era insomma nato per i fatti suoi, ma vi assicuro che se non avesse per tempo incontrato i fatti altrui non avrebbe mai assunto la forma che ha adesso), quando ne parlai a Luca, fra Piazza del Popolo e Villa Borghese se non vado errato (ricordo una serata assai ventosa, e con improvvisi scrosci d’acqua, ma avevamo comunque voglia di passeggiare). Non so letteralmente cosa si debba a chi (quando un editore intelligente e un autore chiacchierano, e non è che càpiti poi spesso, finiscono con l’accendersi reciprocamente), ma nel giro di un’ora era nato il progetto, così come poi si è realizzato. L’idea di partenza era quella di riattraversare, in piena crisi della cultura tipografica, la nascita del romanzo (del novel in realtà), e di provare a ripercorrere la trovata con cui Laurence Sterne si prefisse assai per tempo di aggirarne l’effetto sonnambulico (per quanto possa apparire strano, Sterne, perfino indossando la sua maschera buffonesca di Yorick, restava un uomo di chiesa, e si prefiggeva sul serio di salvare anime): quella cioè di adattare alla grande macchina del riconoscimento borghese le modalità della neonata stampa periodica. Il Tristram Shandy, lo sapete, adottò da sùbito (come avrebbe fatto il Sentimental Journey, se la morte dell’autore non avesse lasciato l’opera al palo della prima uscita) questa precisa tecnica periodica, a orologeria se volete (per lo meno quanto la pendola copulativa di papà Shandy), mettendosi in viaggio in realtà non nella consueta bara tipografica (non in «bigger books», per dirlo con le parole stesse del nostro reverendo) ma in agili fascicoli (cinque per l’esattezza, apparsi fra il 1760 e il 1767).

Le conseguenze di una tale scelta, a pensarci, ci appaiono (e ci apparvero quando ne ragionammo) ancora strabilianti: innanzi tutto Sterne aveva così dato vita a una comunità in diretta, per dirla alla Benjamin «all’ordine del giorno», in cui tutti i suoi lettori avrebbero letto la stessa porzione di testo più o meno nello stesso lasso di tempo, finendo così letteralmente col «chiacchierare» non solo con il loro autore (da cui la grande, divertentissima orchestrazione di apostrofi, riferimenti espliciti e puntuali chiamate in causa del Tristram Shandy) ma anche fra loro stessi (la stampa periodica, che concentra i suoi lettori in un numero, cioè in uno stesso periodo a termine, non mette in comunicazione soltanto ciascuno di loro col magazine, ma crea un’autentica comunità di informati sui fatti in grado di interagire con se stessa). Ma la cosa che forse ci stupì di più fu comprendere che la nascita di una tale comunità non poteva che fondarsi sull’assunzione di responsabilità da parte di tutte le parti in causa, in un senso fra l’altro del tutto diverso dalla distribuzione dei ruoli degli attori del sistema letterario: l’autore s’impegnava a scrivere per rispettare il suo (eh già) gentlemen’s agreement con il lettore (non con l’editore), l’editore sottoscriveva un contratto con i lettori (invece di mettere sotto contratto l’autore). E i lettori? Divenivano addirittura i committenti, sottoscrivendo l’opera ancora in fieri con un atto di fiducia, che equivaleva una volta tanto a dare credito, invece di richiederlo. Un lettore non in debito d’identità, ma in credito di conversazione, neanche a dirlo, non lo incanterà nessuno.

Quando dunque abbiamo scelto di ricorrere al sistema dell’uscita a fascicoli e delle sottoscrizioni per Dai cancelli d’acciaio, adattandolo ovviamente all’attuale tessuto mediale (la sottoscrizione poteva avvenire anche in rete) e alla necessità di superare la forma libro (si potevano sottoscrivere non solo i fascicoli ma anche i file audio con la lettura ad alta voce del romanzo), non solo eravamo consapevoli che non c’è innovazione che non proceda come un gambero (si fa sempre un passo indietro quando si vuole fare un salto, lo insegnava il vichiano McLuhan con le sue tetradi), ma anche che in realtà perseguivamo un fine dichiaratamente politico, e dunque in uno economico e culturale. Ci eravamo proposti, almeno per quella occasione, di far saltare l’intera catena di intermediari dell’industria del libro, agenti promotori distributori recensori e quant’altro, per provare a puntare immediatamente, in un sistema di irresponsabilità illimitata qual è quello del mercato, proprio su quanto non viene più richiesto ai soggetti al consumo: non dunque affiliarsi a un progetto esistente, al quale aderire semplicemente consegnandosi, ma costituirne attivamente uno. Il mercato del libro, del resto, lo sappiamo quanto sia drogato (potrete anche non crederci, ma una sessantina di sottoscrittori sono bastati a rientrare nelle spese...), e ci è sembrato dunque salutare offrire a tutti (perché la sottoscrizione era aperta a tutti, non certo a un pubblico eletto... poi naturalmente c’è chi ha accettato e chi no) la possibilità di stringere direttamente un patto con l’autore, attraverso un editore. Il fine (politico) era dunque quello di risarcire la solitudine programmatica che la cultura tipografica ha imposto sin da sùbito al lettore, pur di individuarlo (ahimè nel doppio senso) e dargli un nome. L’idea, insomma, è stata quella di provare a creare intorno a un progetto narrativo una sorta di rete neuronale, una specie di organo autosufficiente in grado poi di agire anche senza, e al di là, dell’opera in questione. Non ho idea di che cosa ne abbiano in verità ricavato i nostri sottoscrittori, ma so per certo che molti di loro si stanno ponendo questioni, talune persino capitali, che in Italia ora come ora passano sotto silenzio. Per quello che mi riguarda, è già un bel successo.

Quanto all’effetto di questa modalità di diffusione, e di scrittura (dal momento che l’opera è stata allestita letteralmente in diretta per questa comunità), ritengo che l’esperienza sia stata addirittura entusiasmante. Ciò che un tale sistema garantisce a un autore (che non lo è, non lo è già, ma si fa autore, e letteralmente un fascicolo alla volta, e solo se si fanno i lettori sullo scorcio degl’incavi che l’opera predispone loro), al di là della piacevolissima sensazione di sentire lo sguardo di chi legge, è proprio l’applicazione del metodo conversevole, tanto caro a Sterne, a tutto campo. Le digressioni, diceva il nostro reverendo, sono la vita e l’anima della lettura, ma non perché ritardano, badate bene, la risoluzione di una storia. Ogni digressione è innanzi tutto sentire la presenza dell’altro, e come se non bastasse consente l’emersione di sempre nuove superfici di mondo. La natura conversevole della prosa narrativa che pone all’interno delle proprie strategie la presenza dei lettori, predispone insomma un organismo romanzesco ad assumere senza esitazioni quello che dovrebbe essere la funzione stessa dell’arte del discorso: la despecializzazione dei linguaggi. I vari specialismi che costituiscono il brulicare dei discorsi di un’epoca (e della nostra, assai parcellizzata nel suo sapere, in particolare), è nel rifuggire ogni possibilità di fare sistema che nascondono la propria matrice ideologica. L’arte deve invece parlare tutti i discorsi del mondo, se per davvero si pone ancora il problema (che è storicamente, e antropologicamente, il suo problema) della sopravvivenza di una comunità.

Ebbene una piccola comunità intorno ai Cancelli è nata, e nascendo ha dato vita all’opera (perché si può sfruttare ad altri fini, prendendo in prestito il bootstrapping con cui funziona secondo i neurobiologi il cervello, l’implicazione reciproca alla base della tautologia del sistema letterario). Quando il romanzo apparirà come un «bigger book», si presenterà di fatto come il lavoro (o il lavorio) di questa comunità in attesa di dispiegare ulteriormente il suo foglio genetico. Gli attori resteranno insomma gli stessi della prima messa in scena (a partire dal fatto che sarà sempre Luca Sossella a editare l’opera, sempre il nome e cognome che fa capolino in questo blog a contrassegnarla, sempre l’elenco dei sottoscrittori a controfirmarla). Eppure da sùbito vi s’innesterà un ulteriore altro, un nuovo due-in-uno insomma, perché alla copertina (e a quattro disegni previsti a fare da sutura ai fascicoli) sta giusto in questo periodo lavorando un’ennesima pseudocoppia, cyop&kaf (www.cyopekaf.org), un duo di guastatori mediali (o graffiatori o writers) che molti di voi magari già conoscerà (ma su cui mi propongo di tornare in uno dei prossimi tre invii). Ecco, infine, che cos’è etimologicamente un congegno [il sostantivo in questione, lo sapete, è abbastanza recente, visto che emerge in pieno Barocco probabilmente dalla congiunzione, come nelle macchinette due-in-uno che ho cercato di descrivervi, di due azioni distinte e inseparabili: «ingegnare», far cioè nascere al proprio interno, e «combinare», vale a dire unire a due a due]. Quando l’opera assurgerà alla sua ultima veste tipografica (e digitale, visto che sarà anche un audiolibro), il congegno, questa paziente zecca, si metterà in attesa dei corpi giusti. Perché poi si propaghi, non varrebbe nemmeno il caso di ricordarlo, occorrerà pagare. Ed ecco che m’infilo io stesso nella castagna!

Come autore, fascicolo dopo fascicolo ho pagato il mio debito; Luca di suo, passando a questo ulteriore livello, come se non bastasse quanto ha già investito, continuerà a pagare (carta, stampa, redazione, promozione, diffusione e quant’altro). I sottoscrittori, neanche a dirlo, l’hanno fatto da sùbito. E i lettori? C’è una quota associativa, quella che troverete scritta sulla quarta di copertina, ed è un prezzo che non si può aggirare. Magari nei supermercati troverete libri e dischi per quattro soldi; il che vuol dire che troverete soltanto quello che è stato messo lì a cercarvi. La musica si scarica, ed è un bene; ma si tratta di musica che ci ascolta, non di musica che ascoltiamo, perché, lo sapete, con la politica dei grandi numeri possono sopravvivere solo gli autori di cassetta, e rischieremo prima o poi di ascoltare tutti la stessa roba (a meno di non tornare ad ascoltare roba vecchia). Chi non è disposto a pagare, nelle faccende dell’arte, che sono quelle della comunità, vuol dire che è appagato (buon per lui, vorrà dire che se la gode). Quanto a me, lo sanno i miei editori, non riscuoto mai i diritti d’autore (per modesti che siano), li reinvesto in iniziative editoriali. Io lavoro, per vivere; e se dunque scrivo, non è per vivere, ma per vivere oltre. Ciò che paghiamo, ogni volta che acquistiamo un prodotto non uniformato, è la possibilità che ci sia qualcuno che continui a produrlo e a farlo circolare. Non siamo nel paese di Bengodi: la libertà non ci aspetta nel suo gregge, si paga.

Nel febbraio del 1974, giovane ed emozionatissimo, ero al concerto dei King Crimson. Durò un’ora e mezza di continue sorprese (qualcuno di voi ricorderà che quella formazione era un’autentica macchina da improvvisazione), e per me, che ero letteralmente con le lacrime agli occhi, fu quasi un fenomeno di conversione (capii per esempio quanto fosse necessario acquisire le tecniche, per poter essere in grado di aggirarle, o prenderle in giro). Il concerto, come quasi sempre in quegli anni, fu preceduto dagli scontri fra la polizia e chi cercava di entrare senza biglietto, nel nome di uno slogan all’epoca molto in auge: «La musica è nostra e non si paga!». I tafferugli in quell’occasione si protrassero molto a lungo, anche a spettacolo iniziato, e la sala fu letteralmente invasa dai lacrimogeni (ecco perché ne versavo tante). A un certo punto anche noi che eravamo già dentro (io avevo investito tutti i miei risparmi, non solo nel biglietto del concerto, ma anche in quello del treno, e già mi figuravo tutte le sigarette, e non solo, che non avrei per un bel po’ fumato), cominciammo a nostra volta rabbiosamente a intonare lo stesso slogan. La cosa prese una piega assai insolita, per chi conosce il carattere schivo e taciturno di Robert Fripp. I musicisti si fermarono, lui si tolse la chitarra, si alzò dallo sgabello su cui sin dalle prime apparizioni se ne sta immobile e andò... potete anche non crederci!... al microfono. Ci guardò un po’, alla sua solita maniera (con la mano a fare solecchio), sorrise (!) e disse: «Avete ragione, la musica è vostra. Ma voi ci pagate per viaggiare...»

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