di Gabriele Frasca
Gabriele Frasca è nato a Napoli nel 1957. Ha pubblicato in versi: Rame (Milano 1984 e Genova 1999), Lime (Torino 1995), Rive (Torino 2001) e Prime. Poesie scelte 1977-2007 (Roma 2007).
I suoi romanzi editi in volume sono: Il fermo volere (Milano 1987 e Napoli 2004) e Santa Mira (Napoli 2001 e Firenze 2006). Sono apparsi anche suoi testi teatrali (Tele. Cinque tragediole seguite da due radio comiche, Napoli 1998) e svariati saggi, fra cui: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (Napoli 1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (Napoli 1992), La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (Genova 1996), La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale (Roma 2005) e L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Roma 2007).
Con il gruppo musicale «i ResiDante» ha inciso il cd Il fronte interno (Roma 2003). Ha tradotto Philip K. Dick (Un oscuro scrutare, Napoli 1993 e Roma 1998) e Samuel Beckett (Watt, Torino 1998; Le poesie, Torino 1999; Murphy, Torino 2003; In nessun modo ancora, Torino 2008).
Dal 2008 al 2010 ha pubblicato a fascicoli, solo per sottoscrizione, il suo terzo romanzo Dai cancelli d’acciaio (che apparirà in volume unico agli inizi del 2011).
Ha curato nel giugno del 2008 per il Festival del Teatro di Napoli le messe in scena de L’assedio delle ceneri.
Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università degli Studi di Salerno.
di Cecilia Bello Minciacchi,
Paolo Giovannetti,
Massimilano Manganelli,
Marianna Marrucci
e Fabio Zinelli
di Yolanda Castaño
di Domenico Ingenito & Fatima Sai
di Maria Teresa Carbone & Franca Rovigatti
a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce
Ne segue sùbito un’altra, a meno che non sia un inciso. Non c’è che dire, il reverendo Sterne, a furia di procedere elicoidale fra pulpito e pressa, la sapeva lunga, e nella vita di ciascuno di noi, che è una digressione che ci auguriamo ampia, i fatti talvolta si torcono ad incontrare le opinioni, sempre che non siano queste ultime a presentire, o quanto meno prefigurare, un evento che Alain Badiou chiamerebbe in attesa del suo nome. Le cose che accadono insomma stanno lì, sono in verità situazioni, e aspettano solo di farsi avanti come suol dirsi a parole, sempre che, presentandoci noi stessi come il respiro che le anima, non sia una porzione del niente innominabile a gonfiarsi così, come un palloncino, per negarsi al mondo del possibile, e cascare giù dall’onda evenemenziale sul bagnasciuga dei fatti. Sia come sia, devo ammettere che il buon Robert Fripp, convocato a chiusa del precedente invio, è proprio come se me lo fossi evocato, quasi a corroborare la vocazione capocaudata di questa sequenza. Avevo difatti appena finito di rievocare quel vecchio concerto, ricordate, e mi è giunta la notizia che erano previste alcune date italiane del tour europeo di Travis & Fripp. Due-in-uno. Ma tu guarda.
Ed eccomi di nuovo, trentasei anni dopo, sullo stesso treno. Oh certo, l’alta velocità adesso fa la barba agli Appennini, e non ci premia più a metà percorso con l’improvvisa vista mare, ma quel treno parte e arriva nelle stesse stazioni di allora, anche se adesso sembra solo di prendere la tradotta da un centro commerciale all’altro. Dal dedalo di vetrine con cui dài addio alla tua città, all’incubo di vetrine con cui ti risponde salve quell’altra. Le hanno chiamate «Mille Stazioni», ma sono tutte la stessa. E al centro, fra viaggiatori storditi dal volume discoteca dei maxischermi, e in cerca ad arte del primo riparo (se sono state loro sottratte finanche le sale d’aspetto), mastodontica e spettrale svetta la solita megalibreria «viva Las Vegas!», con le vetrine piene dei bei volumi Mondadori/Mediaset. Oh, che volete, un presidente del consiglio, scadente quanto vi pare, ci ricordano allineate e lucide quelle vetrine, se ne sta inculato in ciascuno di noi, e alla prima sosta che ci concediamo, eccolo che si risente, dà in un guizzo e torna a ripetere le paroline giuste che tanto ci fanno godere. Spartiamo tutti la stessa sbobba, baby.
Neanche fai in tempo a schivare quel santuario del tempo che si perde fra una partenza e un arrivo, ed eccoti come in un vecchio film di Fellini circondato da una fila ciarliera di giovani seminaristi diretti alla metro, a orecchio veneti. Due di loro, aggiornati come si ama essere quando si è freschi di tonaca e si freme all’idea di dover presto andare nel mondo, stanno discutendo dell’ultimo avvenimento televisivo della stagione. L’argomento è di quelli caldi, e ci si accapigliano un po’, dal momento che non c’è giornale che non vi dedichi almeno un paio di pagine. Si tratta niente meno dell’unica forma di questione morale che questo Paese si consente collettivamente, naturalmente in vitro, e dall’emittente pubblica: un noto presentatore stipendiato dalla Mondadori/Mediaset ha da qualche giorno preso a fare coppia con un noto scrittore stipendiato dalla Mondadori/Mediaset. Piovono dallo schermo e schizzano nel mondo pillole di saggezza, impegno e antagonismo. Omnia munda mundadoris... Segue, come suol dirsi, bibliografia. Buy or Fry! Benvenuti nel Sacro Romano Emporio.
Avvicinandomi al luogo del concerto ripenso alla lunga battaglia legale condotta da quel piccolo chitarrista testardo contro la pletora di etichette discografiche (Island, Polydor, BMG, Virgin, Sony) che si sono susseguite, dalla fine degli anni Sessanta in poi, fagocitandosi l’un l’altra, a spolpargli fin quasi all’osso i diritti maturati (come del resto è accaduto, e in parte accade ancora, a tanti rappresentanti della musica un tempo detta alternativa, poi underground, poi di tendenza, poi magari indie, poi non si sa nemmeno cosa). Vivere di musica, per quanto a suo modo popolare, non è mai stato facile, e adesso che le multinazionali svendono i cataloghi in rete (tanto si sono tutte riconvertite) naturalmente ancor meno. Per chi ha, come se non bastasse, la pretesa di fare un po’ di arte, e di andarsene dunque per forme d’avversione, le cose vanno ancora peggio. A meno di non riuscire a creare un singolare circuito etico basato su un patto, diciamo così, di circolazione della libertà (che si paga): quella del musicista di seguire la propria inclinazione, e quella del fruitore di aderirvi o meno senza ulteriori intermediari. È il «potere di credere», che non è l’accettazione di una credenza (le merci ci aspettano, come un libro in vetrina o un programma in tv, quasi fossero il bene di natura che ci è proprio, e noi ci facciamo comprare da loro, e naturalmente paghiamo per questo). Il «potere di credere» (rubo un’espressione cara al nostro chitarrista) è al contrario la condivisione di un atto politico, cioè un gesto innaturale con cui mettersi di traverso al mondo («Siamo una buona band», dichiarava Fripp dell’ennesima incarnazione del suoi veicolo più popolare, per poi sùbito aggiungere, perché solo una provocazione convoca: «abbiamo solo bisogno di buone orecchie»). Vi propongo pertanto una visita al sito della Discipline Global Mobile, perché più di tutte le mie chiacchiere precedenti, vi mostrerà fin dove si può arrivare con una comunità che sottoscrive un patto, e non per riconoscersi, ma per avere.
Qualcosa insomma è accaduto, e assai per tempo, nel mondo della musica popolare che non parrebbe essere nemmeno in prospettiva in quello della letteratura. La creazione di minoranze insomma assai agguerrite, esperte, motivate, che non solo si sottraggono all’omologazione delle majors, ma che finiscono paradossalmente col risultare persino trainanti in un settore in cui ogni velleità artistica dovrebbe essere, ed è, strategicamente depressa. Certo, si tratta di un mercato molto più vasto di quello letterario, legato com’è quest’ultimo alla diffusione di una lingua nazionale, ma anche per l’appunto attraversato da una maggiore offerta, e dunque soggetto a una pressione per l’uniformità dei prodotti di gran lunga superiore. Fin quando ha avuto peso una stampa di settore, gli sforzi per far convergere i gusti dei possibili acquirenti su questo o su quest’altro gruppo o fenomeno del momento, sono sempre stati fin troppo evidenti, e altrettanto sistematicamente premiati dai più, ma al contempo frustrati da un pubblico (di ragazzini!) che non si lasciava facilmente imbambolare (pensate solo a quanto tempo ci hanno messo le case discografiche per riorganizzarsi dopo l’avvento del punk...). Ora certo ci bada MTV a liofilizzare il tutto e a farne pappetta, eppure in molti ancora riescono a divincolarsi dalle pressioni del mercato, il più delle volte con un gesto di fondazione comunitario, che la rete fra l’altro rende alla portata di tutti. La rete? Con quel casino che l’attraversa, e mentre mostra tutto immediatamente occulta? Sì, perché in questione non è dove si rifugia, o nasconde, o seppellisce un enunciato. Resta lì, ci ricordava Deleuze, alla portata di tutti. In gioco è solo la nostra capacità di estrazione.
Eh già, non bisogna smettere di cercare, che poi è il ritornello (gnostico) di Didimo Giuda Tommaso nel vangelo che gli viene attribuito, posto addirittura in prima battuta, e come se non bastasse affidato alla voce (mai così tanto sfrontata) del Cristo. Continuare a cercare, certo, e perché mai? Per completarsi? Realizzarsi? Trovare una rarità preziosa con cui farsi riconoscere un dandy dai consumi raffinati? No, per stupirsi, e turbarsi ancora. «Colui che cerca non desista dal cercare, fino a quando non avrà trovato; e quando avrà trovato, si stupirà. E quando si starà stupito, si turberà e dominerà su tutto». Dovrebbe essere più o meno roba del II secolo, questa faccenda del cercare stupirsi e turbarsi, quando pure s’estendeva una forte società dello spettacolo solvente e in attivo, e avremmo dovuto farci il callo.
La musica che amavi, nei primi anni Settanta (come adesso), non la sentivi mai per radio (nemmeno nell’unica stenta fascia di programmazione che l’emittente pubblica destinava alla minoranza di giovani «alternativi»), e le riviste di settore per lo più la stroncavano (piaceva «er rocke», quello tutto emozioni, giro di basso e sentimenti). Il primo disco di Brian Eno, ricordo, fu recensito come il trionfo in plastica di un grande mistificatore (ma del resto anche i primi, e ben più ecumenici, Roxy Music erano passati dalle nostre parti per cialtroni), e un album a mio parere epocale come «No Pussyfooting» di Fripp & Eno venne descritto come un’operazione di dubbio gusto per spennare i polli («chi cazzo se la sente roba del genere?», era la domanda sottesa dell’articolista). Non vi dico nemmeno, per continuare a limitarmi a un bacino generalista, che cosa si scatenò contro l’assunzione di responsabilità tecnologica, e tecnologicamente omologata, dei Kraftwerk. Per non parlare del problema che tanti dischi non venivano all’epoca nemmeno importati in Italia, e per averli occorreva fare i salti mortali, oltre che dissanguare le pochissime risorse a disposizione.
Quanto a me (che questo inatteso testacoda quasi quarantennale induce a coccolare la memoria), limitando dolorosamente qualsiasi altra spesa, riuscivo con la paghetta dei miei, che coi loro sacrifici oggi non sarebbero in grado nemmeno di farmi completare gli studi, a comperare un disco al mese, e poi restavo in casa ad ascoltarlo, perché anche per uscire non avevo più un soldo. Possedevo all’epoca uno stereo ridicolo, di quelli a valigetta smontabili, che dovevi applicare quasi le casse alle orecchie, se volevi avere una lontana idea di che cosa fosse la stereofonia. Eppure... Dovetti attendere un paio di mesi, nel 1972, non appena compreso quale fosse il canale giusto (un negozio di dischi di Bologna, per l’esattezza), perché mi arrivasse dall’Inghilterra il primo disco dei Matching Mole (il secondo, il maoista Little Red Record, l’avrebbe poi prodotto giusto Fripp), e dato quanto mi costò, per tutto quel periodo non potei letteralmente fare altro che attendere. Ma quando finalmente scivolò sul piatto [perché mai, anche ora, ricordo che quella copertina con le talpe occhialute, ruvida non liscia, ruvida e bianca, profumava di fragole?], e sugli accordi del piano e il tappeto di un vecchio mellotron flautato si spalmò il miracolo della voce di Robert Wyatt che salmodiava «O Caroline», prima di diffrangersi in «Instant Pussy», per divenire poco più di un sospiro roco all’inizio di «Signed Curtain» [«This is the fisrt verse, first verse, first verse»... lui che allora le usava ancora le gambe, il rullo e la grancassa, e cantava tautologie, e automatismi psichici, perché a nostra volta ne sortissimo]... oh beh, ragazzi, che volete che vi dica? Ne era valsa proprio la pena.
Ne vale sempre la pena di pagare la propria consapevolezza, sia pure quella di essere niente, niente di più di quello che in quel momento si sta ascoltando, che è già qualcosa. «And this is the chorus / Or perharps it’s a bridge / Or just another part / Of the song that I’m singing». Questa è la strofa, questo è il ritornello, questo è l’intermezzo della canzone che sto cantando, e sono, nel momento in cui la canto, e non sono nient’altro, come sei nient’altro tu, che l’ascolti. Sono questo, e basta, ed è con questo che cerco un contatto con te che sei questo e basta. Perché il bene, il bene di ciascuno di noi, non è essere cosa o chi, ma essere consapevoli che tutto ciò che credi di essere di tuo, non lo è di tuo, non lo potrebbe essere mai: se mai è tuo, è tuo per il tempo in cui lo dici tuo, perché è il tuo modo di tentare un contatto. Sei esattamente ciò che hai, e dichiari di avere, ma prima o poi devi fare un ultimo acquisto, che è in realtà il primo, quello della consapevolezza che tutto ciò che hai, e dichiari di avere, se ce l’hai, beh non è in dotazione. Quello che acquisti, durante una vita, con la paghetta che abbiamo tutti a disposizione, o che dovremmo essere tutti messi in condizione di avere (e se c’è ancora un motivo per battersi al mondo, e battersi allo stremo, è sempre solo quello di assicurarla a tutti, sta cazzo di paghetta), ebbene quello ti resta. Ciò che sei riuscito a fare tuo, fra mille sforzi, quello e nient’altro sei, se sei così scanzonato da dichiararlo per quello che è, un modo di mettersi in cerca. E se t’intestardisci a restare in te e andare a fondo, ritrovi invece quello che tutti ci spartiamo come il pane: niente.
Ciò che ciascuno di noi, strappandolo all’altro, chiama «io» è un vano: di suo il solito ambientino spoglio. Se qualcosa lo distingue, è solo l’arredamento, e quel piccolo elemento in più, che non è un acquisto, che a furia di contrarre debiti, per arredare casa, è emerso come la favola che racconta proprio te: il gusto. Il tuo gusto. Sei perché ce l’hai. È qualcosa che sai, il gusto [non mi dire che non te lo senti in bocca, mentre passa il cibo, che è già il tuo corpo]; è qualcosa che nel momento stesso in cui cominci a sapere, ecco che diventa una cosa che sa, e sa del tuo sapore. Ora sto cambiando chiave, recitava la seconda strofa di Signed Curtain: niente paura, vuol dire solo che ho perso fede nella canzone che canto, perché non mi aiuta a raggiungere te, e la farò sfumare, per cantarne un’altra, che sappia ancora più di me, mentre ripeto esattamente che la sto cantando per raggiungere te. [Una dritta: andate su You Tube e guardatevi il concerto filmato qualche anno fa dalla BBC, con l’ormai vecchio Robert Wyatt sulla sua sedia a rotelle che canta, sigaretta in mano, «Free Will and Testament». Lo trovate se volete persino coi sottotitoli (ma un po’ infidi) in italiano. Inchiodato alla sedia, come lo è oramai da trentacinque anni, Wyatt non ha mai smesso di insegnarci come ci si schioda da tutto ciò che sembra trattenerci: «Be in the air, but not be air, be in the no air»...]. E se per caso hai intrapreso un’analisi, e l’analista coi suoi silenzi non ti dice questo, che sei insomma il vuoto col sapore intorno, in cerca di non si sa chi, e cosa, e provvede invece a ripopolarti a chiacchiere un mondo d’ombre, o indicarti in quale calco dovresti accomodarti, schizza via dal lettino: è il guardiano della prigione. No, non te ne scappi via se limi le sbarre, o fai saltare la porta col tritolo, anche perché nessuno te li passa sotto banco. Evadi solo quando ti accorgi che è vuota. Proprio così: la cella che t’imprigionava, se la guardi bene, è vuota, e se è vuota, lo capisci, vuol dire che sai, non certo che sei. Sai di essere una strofa, una strofa, una strofa, o il ritornello, o magari l’inciso.
Ne vale sempre la pena di dare uno sguardo intorno, e scambiare il sei col sai. La chiesa evangelica che ospita il concerto di Theo Travis e Robert Fripp, accoglie a guardarmi in giro un pubblico che mi sorprende. Càpita sempre nei concerti di questi musicisti che sono riusciti a creare il loro gruppo di «sottoscrittori», aggirando majors, giornalisti più o meno prezzolati, deejay piacioni, e tutto il circo Barnum della musica popolare. Anche nell’ultimo evento cui ho assistito dei Residents, mi stupii molto della fisarmonica generazionale che si dispiegava intorno a quei corroboranti guastatori mediali. In questo caso mi meraviglia la circostanza di trovare fra gli astanti molte persone più vecchie di me. Questo non me lo sarei proprio aspettato, e mi fanno in verità un po’ invidia, perché evidentemente avranno incrociato, non appena apparso, il primo disco dei King Crimson, nel lontanissimo 1969. Beh, deve essere stata un’esperienza mica male, e in tanti certo occorre supporre che l’abbiano fatta, ma mi sorprende che qualcuno di loro sia rimasto, per così dire, fedele all’evento. Chissà perché ho sempre immaginato, con le dovute eccezioni, i sessantottini oramai tutti smobilitati, o bolliti, o al servizio del peggio, che è lo stesso. Ma mi piace essere smentito; forse è la cosa che mi piace di più. Quanto a me, il primo disco dei King Crimson che comprai alla sua uscita, e per cui poi m’imposi di recuperare i precedenti, ricordo che fu «Island», nel 1971. Ne avevo quattordici, di anni, ed ero appena al terzo LP di quella che in séguito sarebbe divenuta la mia collezione. Di miei coetanei, settantasettini mi auguro, ce ne sono abbastanza in sala, com’era prevedibile. La penuria di quarantenni invece mi stupisce meno. Ma non è una questione che riguarda coloro che oggi ne hanno quaranta, che pure qualcosa di loro l’hanno vista e fatta, è piuttosto la conseguenza di come si reagisce a quel giro di boa. Lo è per tutti.
A quarant’anni, si sa, ne ho parlato recentemente con un amico, suona un rintocco, risuona nel vuoto, e sùbito si sente il niente; e tutto quello che si è faticosamente acquistato col tempo, che poi è nient’altro che un sapore, sfuma a tal punto che si rischia, pur di non deprimersi, di barattare il che cosa con il quanto, il sentore di te che hai ricavato dai tuoi faticosi acquisti col potere che ti garantirebbe la loro eventuale ricollocazione sul mercato. Uno, in fondo, ci va pure a cuor leggero, alla prima asta di modernariato che ti offrono (ce n’è una per ciascuno di noi): alla fin fine pensi di vendere soltanto cose nemmeno tue, un po’ di ciarpame raccattato qui e là, non il vero te stesso. Solo che tu, malauguratamente, sei proprio quello che non è tuo, ma hai; cioè esattamente tutte quelle cianfrusaglie che ti sei messo a vendere sottocosto. A quarant’anni, neanche a dirlo, cantano le ultime sirene del mondo, e a meno che non ci s’indurisca (a costo di pagare un prezzo veramente alto, quello di capire che non sei nient’altro che ciò che sai di non essere, e che dài via così, senza nemmeno ti sia chiesto), ci si guarda intorno, e si finisce con l’invidiare chi ha fatto man bassa di ciò che viene offerto a tutti, e che è per davvero sempre alla portata di ognuno, come in quelle famose vetrine, al punto che trovi sempre gli acquirenti, quando è il tempo di rivenderlo. È uno spaccio, il piccolo potere micragnoso che ciascuno di noi può gestire, a condizione che non si sappia di sé (prima strofa), o si sia piuttosto rimasti inopinatamente disgustati (seconda strofa).
Potentati, consorterie, affiliazioni, ce ne sono quante ne vogliamo, basta guardare nella direzione giusta, anche se questo significa non sentire più il proprio sapore, e smettere dunque di cercare. Del resto, è innegabile, la gestione anche del più miserabile potere ha i suoi vantaggi, a partire dal fatto che ti ripete almeno una cosa, di cui siamo in debito tutti: che, cioè, sei questo e sei quest’altro, e se dunque resti dove dicono che sei, qualcuno infine pure ti riconosce. Uniformarsi, lo sappiamo, vuol dire semplicemente contarsi tutti per uno. Li vedi per la prima volta sotto un’altra luce, questi potentati insapori incistati intorno al vuoto che siamo, e alla fin fine ti sembra che abbiano quanto meno capito il gioco, sia pure quello dei riflessi. Hai perso del tempo, e loro invece sì che si sono dati da fare. «E che miseria», ti dici, «a spacciare quello che è alla portata di tutti, e a spacciarlo in proprio, si finisce infine nella luce piena della facile riconoscibilità. Almeno ti dicono quello che sei, e pace. Che ci guadagno invece a restarmene nell’ombra, a ripetere che sono solo la strofa, il ritornello o l’inciso in cerca di un altro che non potrò mai raggiungere? Non è meglio cogliere almeno di tanta luce a giorno una scintilla?» È l’ultima tentazione, per chi è riuscito a evitare le altre; e per alcuni, i più sottili, si ammanta addirittura della bella veste del sacrificio, e di una sana ecumene. «Vado verso gli altri, mi assimilo ai simili, e per farlo, ripeto quello che vogliono sentirsi dire. E se anche so che in fondo è una truffa, va bene; almeno mi faccio uno con tanti, e non me ne resto solo, orgoglioso del mio niente, come Lucifero».
Via, lo sappiamo: il diavolo, se esistesse, e fosse per davvero pago della sua dannazione, del suo essere insomma il due-in-uno in attesa del tre, sarebbe nessun altri che Dio. Ma a fare l’inferno bastano al contrario tanti poveri diavoli, o poveri cristi, disposti a spartire le proprie pochezze e sofferenze, gabellandole per il sommo gaudio o per una piccola soddisfazione, e traendone un qualche vantaggio. Imparate a godere, ci dicono: e uno impara a farsi riconoscere per quello che dicono che è [non «un che piange», eh, ma un che gode], e ci sta proprio bene. Il traslato del verbo fottere e limitrofi, serve perfettamente alla bisogna. Fottere, fregare, prendere per il culo, equivalgono tutti a ingannare, ma con un certo che di godimento che trasuda dal senso letterale, che riguarda chi compie l’inganno, certo, ma finanche chi lo riceve. Io ti riconosco, tu mi riconosci, e ce la spassiamo. Io ti dico che sei questo, e tu mi dici che sono quello, tutti si fottono l’un l’altro, e nessuno mette più in gioco ciò che ha; e se qualcuno pensa ancora di non essere nient’altro, niente di più che il proprio sapore (che sa di sé, ma non è il sé), beh se insiste gli si aprono i campi. Non è mai stato Satana con la sua orgogliosa rinuncia, ma tanti balordi messi insieme, inculati l’uno all’altro, a fare il Male assoluto. Non Hitler, ma la pletora di poveracci che ne hanno tratto vantaggio, ha consentito la presa del potere e la diffusione del nazismo. Fino ai suoi esiti estremi. Per questo occorre riflettere: uno psicopatico lo si trova con una certa facilità in giro, e ha di norma il suo tormentato destino psichiatrico. Ma se in tanti ne scelgono uno con cui fare uno, e cominciare il carosello del reciproco riconoscimento, non è certo a lui che si può imputare la colpa. D’altra parte, se molti acquistano un unico prodotto, persino se è scadente, non è che dietro ci sia qualcuno che trama per uniformare i gusti, ma tanti che chiedono solo di essere uniformati, per convinzione o convenzione, e di non sapere (di) nient’altro. L’ignoranza, diceva Lacan, è una passione (ma, aggiungerei, nel senso che dava al termine Sade).
Avrebbero rallegrato con le loro piccole e in fondo innocue bizzarrie qualche ufficio periferico, dove discettare se mai coi colleghi di esoterismo e purezza della razza, fatto la gioia di qualche riunione aziendale, divertito un condominio, titillato un cliente, questi anonimi che sono il vero volto delle tirannie efferate [Stalin è un paio di baffoni; lo stalinismo invece è un mondo di soddisfatti dal reciproco riconoscimento, che deve postulare l’esclusione di altri. Da questo punto di vista, vedrete che tra poco lo rivaluteranno, il piccolo padre Stalin, magari per dichiararlo il politico più lungimirante, quanto a intuizioni democratiche, del secolo trascorso]. Qualcuno sarebbe stato salutato come un’autorità nei cruciverba, o sarebbe diventato corrispondente di una rivista di occultisti, o sarebbe andato in giro col binocolo ad avvistare gli UFO (i più fortunati sarebbero stati addirittura rapiti, per poi essere risputati chissà perché ancora su questo mondo); altri invece, dopo un paio di birre, o di vodke, e qualche canzone lacrimosa cantata in coro, si sarebbero limitati a tornare a casa per picchiare moglie e figli. Tutto nero su bianco: lo trovate persino nell’Ulysses (anzi è questo che dovremmo imparare a trovare in quell’opera straordinaria, se vogliamo una volta per tutte cominciare a capire per che cosa ha lottato, persino contro la sua stessa lingua, Joyce). E invece rischiavano, e da allora rischiano sempre, questi amiconi beceri e solo moderatamente violenti (perché di per loro, lo sappiamo, non farebbero male a una mosca), di governare il mondo, e ripulirlo finanche per bene. Un ebreo fa una barzelletta, ce lo insegna anche il nostro scadente presidente del consiglio: messe insieme tante barzellette, fanno però una soluzione.
Li cerchiamo nei palazzi del potere, questi uomini insapori, innocui, persino bonaccioni, e più pericolosi della peste, e non ci accorgiamo di averli sul pianerottolo. E nemmeno che anche per noi, prima o poi, a lasciarli fare, e dire, scivolerà sul volto la stessa espressione di godimento. Per convenzione, se non per convinzione. Il pianerottolo, neanche a dirlo, ci attira, perché uno ci vive tutta una vita gomito a gomito con quelle persone, ed è meglio farci quattro chiacchiere quando le s’incontra. Magari la prossima volta non ti faranno causa, per la solita infiltrazione d’acqua. «Questo è il mondo», ti dici. «Meglio accettarlo per quello che è. Poi, alla prima occasione, ci faccio quattro chiacchiere io, con quella gente lì, e provo a farla ragionare un po’. Alla fin fine lo faccio per il bene di tutti». Càpita sempre così, e non è detto che non sia proprio questo a essere capitato anche a loro: non fai in tempo a stagliarti nel primo tizzone d’inferno, che sùbito ti convinci che a brillare sia l’aureola, e vai avanti come un santo, o un sonnambulo.
È l’eterna storia del farabutto e del buffone, così come ce l’ha raccontata Lacan in un inciso del suo settimo seminario. Da una parte c’è il Fool (cioè il latino follis, che viene da flare, perché è in fin dei conti uno che in testa ha solo aria), che è dunque un ritardato dalla cui bocca escono delle verità (che certo non cambieranno il mondo), funzione questa che lo psicanalista francese attribuiva (era il marzo del 1960) agl’intellettuali di sinistra; dall’altra il Knave (all’origine ragazzo, e dunque fante; poi valletto servizievole, infine briccone, truffatore), «il signor Tutti con più decisione», spiegava Lacan raffrontandolo agli a lui coevi intellettuali di destra, un rude realista capace al momento giusto di saper fare la canaglia. Per convenzione, se non per convinzione. Di questi tempi sarei meno stagno nelle compartimentazioni: il Knave, è sotto gli occhi di tutti, pur restando saldamente a destra, ha sfondato lietamente a sinistra, e con c’è intellettuale, di punta quel giusto, che non faccia il cinico, senza però avere il coraggio delle scelte che lo renderebbero per davvero tale. Più interessante, notava però Lacan, è considerare i risultati di tali modelli di comportamento. Perché se è vero che «una canaglia vale uno stolto, quanto meno per il divertimento» [cambiate pure freneticamente canale, passate da Fazio a Fede, per limitarci alla effe, e c’è sempre di che divertirsi], è altrettanto vero che «il risultato della costituzione delle canaglie in branco è una stoltezza collettiva». [Ci siamo immersi dentro, al momento, sicché non vale manco la pena di esemplificare]. Così come, di converso, «la foolery», un tempo degl’intellettuali di sinistra (e ora di qualche rompicoglioni residuato), «finisce benissimo in una knavery di gruppo, in una canaglieria collettiva». [Se date un’occhiata alla fine che ha fatto la maggior parte dei sessantottini, in specie gl’intellettuali del gruppo, il discorso credo che vi torni; ma vi basti anche riandare alla trasmissione televisiva di cui parlavano quei due simpatici futuri sacerdoti, che certo avrà spostato gl’indici d’ascolto, ma non i voti, né le appartenenze].
Ritengo che siano considerazioni un po’ sconfortate di questo tipo, a paralizzare a quarant’anni chi ancora non s’era fatto fregare prima. Perché per come sono state presentate le cose, parrebbero bilanciarsi al punto che alla fin fine, farabutti o buffoni, si finisce comunque con l’essere affetti tutti (come in un romanzo di Flaubert) dalla stessa appassionata bêtise. Insomma: come può un intellettuale uscire da questa trappola, che poi è quella del flux de connerie? Per Lacan (a quell’altezza), è presto detto: con Freud, per Freud, in Freud. Una quindicina d’anni dopo, quello stesso ritornello sarebbe invece divenuto, e sempre per bocca sua, e nell’intrecciarsi dei nodi: con Joyce, per Joyce, in Joyce. Ci servono queste due risposte? Non lo so, ma magari sarà il caso di trovare un minimo comun denominatore, fra queste due gioie gioiose. Allora mi ci metto, e provo a tradurle a parole mie (rubate, come sono sempre tutte le parole «nostre»; nella fattispecie, a un bel saggio di Maria Corti). C’è un solo modo, penso ci abbia insegnato nel corso dei ventiquattro anni del suo seminario Lacan, per continuare a fare l’intellettuale senza essere un Fool o un Knave, e quel modo ce lo mostrano, se proprio vogliamo, giusto le parabole di Freud e di Joyce (e anche di tanti altri, prima e dopo di loro). Perché il denominatore comune, nella joy di Joyce e nella Freude di Freud, è la felicità mentale. Felicitas, o voluptas, speculandi? No: solo la consapevolezza, se vogliamo ridurre i sistemi di queste due gioie all’osso, che c’è una frase fatta, questo sì, per tutti, ma che la digressione è di ciascuno di noi. Ne possiamo insomma interpolare ancora tante, per tutta una vita, di frasi che restano sempre fatte, e ripetono, come se non bastasse, di non essere altro che frasi, strofe, ritornelli, incisi. Ne possiamo aggiungerne quante ne vogliamo, a fare ampia la digressione, tutte sempre le stesse, sì... ma mica sempre nel verso giusto! Eh sì: la felicità mentale procede per forme d’avversione.
Un cospicuo numero di trentenni invece c’era, al concerto di Travis & Fripp. Era questa la generazione più rappresentata, insieme a quella che adesso ne ha sessanta. Non molti ventenni, e a sorpresa, per me, due gruppi di adolescenti. Probabilmente apprendisti chitarristi, per come sono andati prima dello spettacolo a studiare con estrema attenzione lo strumento di Fripp (già collocato vicino al fedele sgabello) e il sistema di registrazione digitale che ha preso il posto dei primi Revox dei frippertronics degli anni Ottanta. L’emozione, assai composta in verità, sui loro volti è l’immagine più bella che conserverò di questo concerto. Si sono seduti vicini, si sono scambiati commenti, hanno dato di gomito quando un po’ a tutti è successo di farlo, e hanno sorriso quando i musicisti lo hanno fatto prima di andarsene. This is the second verse, second verse, second verse.
Il concerto, neanche a dirlo, è stato di una grande intensità: su una base dichiaratamente soundscape, Travis & Fripp creano al momento (c’è molta improvvisazione, e tanto si deve dunque all’energia che viene dal pubblico) strutture che spaziano dall’estremamente rarefatto, a volte con inattese connotazioni noir, alla costruzione di autentiche cattedrali sonore (una digressione dopo l’altra, insomma). In due occasioni Fripp, a memoria mia mai così nostalgico, persino straziante, ha fatto emergere temi che hanno, come dicevo, messo in moto i gomiti dell’intesa. Prima è stata la volta addirittura di Moonchild (proprio dal fortunato disco di esordio dei King Crimson) di sprigionare tutte le sue potenzialità, una volta ingabbiata nella ripetibilità elettronica. Poi, beh, poi c’è stato il miracolo di Starless, a riconfermarmi l’inatteso testacoda da cui ho cominciato questo invio. In quel giorno del febbraio del 1974, oltre alla sorpresa di una versione ancora più bisbetica di Cat Food, i King Crimson presentarono il repertorio del disco uscito l’anno prima (Larks Tongues in Aspic), con tre brani allora ancora non editi: Lament e Night Watch (che sarebbero apparsi da lì a un mese in Starless and Bible Black), e questo terzo incredibile pezzo che, frustrando le nostre attese, sarebbe stato inciso solo in Red nel 1975. Per noi amici che eravamo andati insieme al concerto, Starless ha rappresentato per un bel po’ di tempo una specie di oggetto di desiderio, e il ricordo di qualcosa non ancora ottenuto. Ce lo canticchiavamo fra di noi, perdendo progressivamente il ricordo della melodia. Risentire ora quel brano, e il suo tema finale quasi solo accennato nell’improvviso silenzio dell’elettronica, in una tensione che vi assicuro era divenuta palpabile nella piccola comunità all’ascolto (contenuta in quel solo momento, e pronta fortunatamente a riconoscersi solo in quell’atto), per me, se volete, è stata una conferma. Che la meta del desiderio non è il godimento, che è la sua morte, ed è il diffondersi stesso della morte, ma una nuova digressione che consenta di desiderare ancora. È a questo che serve una forma d’avversione.