di Gabriele Frasca

Gabriele Frasca è nato a Napoli nel 1957. Ha pubblicato in versi: Rame (Milano 1984 e Genova 1999), Lime (Torino 1995), Rive (Torino 2001) e Prime. Poesie scelte 1977-2007 (Roma 2007).
I suoi romanzi editi in volume sono: Il fermo volere (Milano 1987 e Napoli 2004) e Santa Mira (Napoli 2001 e Firenze 2006). Sono apparsi anche suoi testi teatrali (Tele. Cinque tragediole seguite da due radio comiche, Napoli 1998) e svariati saggi, fra cui: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (Napoli 1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (Napoli 1992), La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (Genova 1996), La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale (Roma 2005) e L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (Roma 2007).
Con il gruppo musicale «i ResiDante» ha inciso il cd Il fronte interno (Roma 2003). Ha tradotto Philip K. Dick (Un oscuro scrutare, Napoli 1993 e Roma 1998) e Samuel Beckett (Watt, Torino 1998; Le poesie, Torino 1999; Murphy, Torino 2003; In nessun modo ancora, Torino 2008).
Dal 2008 al 2010 ha pubblicato a fascicoli, solo per sottoscrizione, il suo terzo romanzo Dai cancelli d’acciaio (che apparirà in volume unico agli inizi del 2011).
Ha curato nel giugno del 2008 per il Festival del Teatro di Napoli le messe in scena de L’assedio delle ceneri.
Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università degli Studi di Salerno.

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pubblicato giovedì 9 dicembre 2010
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pubblicato martedì 26 ottobre 2010
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a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce

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We are going home, Alfredo Garcia

Articolo postato domenica 6 febbraio 2011


Farabutti o buffoni, a filare nel discorso del padrone, nessuno escluso? Sì, ma avendo innanzi tutto l’accortezza di aggiungere un posto per le isteriche. Fortuna che ci sono, altrimenti chi lo farebbe saltare il banco? E poi non è mica una questione che riguarda solo intellettuali, artisti e quant’altro: in loro magari, ma solo perché è del mestiere farsi denunciare da un’opera, la questione risulta solo più evidente. Ma a chiunque di noi, se non ci è dato che tagliare e ricucire il socius (e dunque essere immersi in quel discorso), non si offre che uno di questi tre luoghi dell’enunciazione. Anche nel più piccolo ambiente di lavoro, rispetto al discorso che l’attraversa, che è pur sempre il discorso di un padrone, meglio se amabile, solo queste tre posizioni possono essere assunte. Se da qualche parte c’è un papà, e ce n’è sempre uno, piccolo o grande che sia, figura carismatica o primo bauscia in transito, si sta da figli; e i figli stagliati sul padre, mai unigeniti e perennemente in contrasto, possono comportarsi solo da farabutti, o da buffoni, o da isteriche. È l’enunciazione fraterna del discorso del padre, che poi è l’attuale configurazione del patriarcato, dal quale parrebbe proprio, papi o non papi, che non si sappia come uscirne.

Pensate ai fratelli gemelli sempre belligeranti che Joyce ha lasciato imperversare nella lunga notte del padre del Finnegans Wake: Shem the Penman (il buffone) e Shaun the Postman (il farabutto). Papà, il signor Ho Comunque Eredi, per giocare un po’ con la sigla con cui si presenta nel mondo (HCE... che poi è nient’altro che Ecce... Ecce Homo), è ovunque in quell’opera, così come avviene nella vita, anche se morto, sepolto, ridotto in pezzi; e ogni volta di nuovo assemblato e risorto, perché è chi lo fa transitare, cioè mamma (Anna Livia Plurabelle), se non la sua brava figlia isterica (già... Issy), che lo rimette puntualmente insieme. La mamma (che è alla lettera il discorso del padre), il fratello farabutto e quello buffone, e l’isterica: li inquadri nella loro economia domestica, dice Joyce, e fai, come sempre nel capitalismo, un padre mitico che non c’è ma sogna il sogno di tutti. E qual è il sogno di ciascuno di noi? Ovvio, che torni papà. C’è sempre un papà, nella nostra fase del patriarcato, non il padre: il Padre, quello che si suppone che tenga tutto in funzione, cade sùbito col suo rombo di tuono, e resta immerso come il Finnegan originario, il gigante archetipico che s’intravede solo nel capitolo iniziale del primo libro dell’opera, in uno strato profondo di sonno, persino geologico. Il Padre dorme sotto traccia e sogna. Che cosa? Sogna ci sia un papà che, a sua volta caduto e sprofondato nel suo sogno, se la gode per tutti; e se la gode perché sogna che in tanti non sognino altro (avrebbe glossato acidamente Pynchon in Vineland) di restare figli per sempre, farabutti, isteriche o buffoni. Da Calderón a Joyce e oltre (via Cervantes, Sterne, Flaubert), e qui da noi fino a Gadda, non c’è forma d’avversione letteraria che non abbia sbugiardato a suo modo il mondo di ombre familiste del Sacro Romano Emporio.

Questa chiassosa farsa luttuosa («funferal» la chiamava Joyce) di sogni che sognano e sonnambuli, non era del resto una strana fantasia dell’autore irlandese; basta dare un’occhiata a come andavano le cose al mondo negli anni di stesura di quell’opera eccelsa, per accorgersi di come questa interpreti in modo addirittura puntuale le forze che contribuirono alla nascita e al consolidamento di tutti i regimi totalitari (e impiegatizi, cioè «fraterni»)) che hanno fatto la storia del Novecento. [Corollario: non fidatevi nemmeno degli artisti, farabutti, buffoni o isteriche per necessità, come tutti; affidatevi solo alle forme d’avversione, perché lì si è sempre costretti a saltare su una macchina due-in-uno, un’interfaccia depatriarcante, per filare attraverso le maglie del discorso che sempre si cuce addosso]. Se Hitler, Mussolini, Stalin erano (per dirla ancora con Lacan) capetti, non capi, è perché gli allora nuovi media della compresenza (radio, cinema, poi televisione) propagavano il piccolo sogno domestico (che prima era stato solo della letteratura) nell’incubo della storia (che è la regalità divina). Se li osservate in maniera un po’ più ravvicinata, quei regimi, vi accorgete che sprizzano ovunque un’affettività diffusa, come se a tenerli insieme non ci fosse altro che un’intima voglia di tenerezza. Persino adesso, malgrado il bagno di sangue cui condussero tutte quelle coccole, la situazione non sembra essere migliorata di tanto (no: non ci siamo risvegliati da quel sogno). Di padri, ora come allora, non se ne vede in giro uno; talvolta piace immaginare ce ne sia da qualche parte, ma chissà dov’è che se la dorme (un grande vecchio, o un «veglio della montagna», di tanto in tanto si presuppone esistere, fa bella mostra di sé per un po’, e poi scompare esattamente com’era apparso). Di papà, invece, con cui farsi belli da farabutti o buffoni, ce ne sono quanti ne vogliamo. Per quanto ridicolo e patologico possa sembrare, anzi proprio perché è tale, persino Berlusconi, papi o non papi, è papà. Un buon papà, vi direbbe una buona isterica, funziona (ma sarebbe quasi il caso di farsi prendere dalla joycite e scrivere invece «finziona», perché è tutto una grande messa in scena) solo se è castrato. Più appare inerme e alla mano, più si riveste della sua stessa pochezza, e più esercita violenza. Pensate solo ai maglioncini di Marchionne. Che tenerezza!

Farabutti, buffoni o isteriche, insomma, a starsene al calduccio nel discorso di papà (che poi, teste il Finnegans Wake, lo fa ogni volta daccapo la mamma); sempre che qualcosa non accada d’improvviso. Qualcosa in cui papà non c’entra per nulla, perché se accade, e sorprende, è perché non c’è una sua parola che le dia senso. Un’orfanità inattesa, ci pensate; e solo perché a papà manca una parola, o la parola non è proprio quella giusta? Certo, perché è un limite al potere apparentemente illimitato del discorso. Se insomma accade qualcosa che il padre non sa dire, se il figlio al dunque rinuncia in quello stesso istante a essere ciò che non può che essere in quanto figlio (nient’altro, persino teologicamente, che la parola del padre, quella che pronuncia la mamma), beh sì, salta tutta l’economia domestica, se non altro perché s’acquista un credito (direbbero in Toscana) «a babbo morto». Succede all’improvviso: accade qualcosa che non ha nome, o meglio ancora che ha un nome che non dice ancora tutto ciò che significa.

Ora nella vita di ciascuno di noi avvengono un’infinità di cose, e il sostantivo non è un’esagerazione colloquiale, perché non c’è accadimento, per quanto apparentemente insulso, che non sia dato approfondire (è questa la felicità mentale) nella direzione d’infiniti che s’incastrano l’uno all’altro. Il nostro modo di portarci nel mondo, e reagire pertanto alle cose che possono accadere (ognuna di loro in attesa di un eventuale slittamento semantico), estranei e persino un po’ impotenti come rischiamo di sentirci all’improvviso manifestarsi di ciò che apparentemente non ci riguarda, finisce facilmente col sembrare solo una visita guidata in pinacoteca. Qualcuno la fa rimettendosi diligentemente alla voce della guida... ah, ma è solo una cuffia con il solito discorsetto registrato, mica una persona. [E che fine fa il discorso del padre in questa immagine? La fine che gli spetta, perché pure ad averlo davanti agli occhi, simpatico burbero o buffo come appare, siatene sicuri: papà parla in playback]. Qualcuno, invece, non vede proprio l’ora che sia finita e spegne il tasto prim’ancora che la voce abbia smesso di parlare, tanto sa già dove andrà a parare, e si limita a precederla. E qualcun altro infine ha la fortuna d’imbattersi nel quadro che lo incanta al punto che, quando tutto tace, finalmente li comincia a sentire, e se ne sorprende, i suoi pensieri.

Aveva ragione Cantor: esistono molteplici ordini d’infinito (che s’appartengono, s’includono), e tutti in atto, ed esattamente perché ci sono dei limiti. È una questione matematica, non una trascendenza (ogni discorso, di suo, si dice illimitato, e quello del padre in special modo; ma non lo è, è una registrazione che può solo incantarsi nella replica). Il quadro del museo in cui vi ho chiesto per un attimo di entrare, non è nient’altro che questo: un limite. Uno ci sbatte di faccia, e sùbito parte la sua brava voce registrata che gli dice di che cosa si tratta e come goderne: «Quello che scorgi davanti a te», gli ripete come fa con tutti, «bada bene che non è un tuo limite; ascoltami, e affrettati, perché in verità non ne hai nemmeno uno, solo roba da trasvolare, se vuoi divertirti». E se per caso a questo qualcuno non riesce in quel momento di balzare di qua e di là nella quadreria come la pallina di un flipper, o un operaio di Marchionne alla catena di montaggio, allora si ferma, e lo incorna, quel quadro che lo sta inquadrando (così si mette in funzione una forma d’avversione). La voce la sua brava filastrocca l’ha finita (potrebbe solo ripeterla), e lui se ne sta lì, fra sé e sé, e guarda. «Cazzo», si dice scorgendo un mondo remoto e così ricco di particolari e sfumature che nemmeno supponeva si squadernasse altrove, «se non posso che restarmene al di qua di tutto questo, allora sono di fronte a un limite!» Certo che lo è, e se lo sfonda (e vi appartiene, o se lo include), è fatta. Sì, ma che cos’è, un miracolo? Un sublime fremito romantico? Macché: un’annessione (una presa di posizione per avere, non per essere), ed è una cosa che fortunatamente facciamo molto più spesso di quello che crediamo nella vita.

«Questo lo ricorderò fino all’ultimo», diciamo a volte al cospetto di una piccola o grande perturbazione del nostro animo, per un avvenimento qualsiasi o un incontro; e in certe occasioni non arriviamo nemmeno a formularlo un simile giudizio, eppure su un fatto qualsiasi della nostra vita è come se avessimo passato l’evidenziatore. E perché? Non è un trauma, eppure quel certo accadimento che si fece già inquadrare come unico (un limite) torna, persino quando non ce ne accorgiamo. E se è così, è perché in realtà l’abbiamo aperto all’infinito (perché questo significa avere). Ce n’è tanto, ce n’è per tutti in giro, senza mettersi ad aspettare con pazienza la morte. «L’uomo è un essere che preferisce rappresentarsi nella finitezza», scriveva Alain Badiou nella sua opera maggiore (L’essere e l’evento), «piuttosto che sapersi interamente attraversato, e accerchiato, dall’onnipresenza dell’infinito». Il che vuol dire una sola cosa, ed è imprescindibile: non c’è vita ulteriore che non sia adesso, non c’è essere che non sia l’avvenire dell’avere.

Si risorge in vita, mica dopo la morte, avrebbe detto uno gnostico del secondo secolo, pensando a quanto fosse necessario, per giungere a quello che alcuni di loro chiamavano «il luogo», approfondire come suol dirsi in loco. [Oh, anche per loro c’era un Padre che li sognava, ma se l’erano scelti così remoto da poter sbugiardare più papà di quanto non facessero all’epoca i primi cristiani, col Padre loro che se ne stava molto più a portata di mano nei cieli]. Sia come sia, su una cosa avevano ragione: le cose che accadono sono già tutte qui, e aspettano solo di ricevere un nome (o che il nome che hanno cominci a significare altro). È un po’ quella faccenda della nostra capacità di estrazione e della visibilità di tutti gli enunciati, anche quelli apparentemente nascosti. D’altra parte se i discorsi coprono l’interezza del mondo, è solo perché per dirlo «mondo» occorre giusto ricoprirlo interamente di discorsi (senza il budello, lo sappiamo, non si dà salsiccia). Per questo gli avvenimenti talvolta appaiono come sorti dal nulla, ma non lo sono. Manca una parola, anzi molto meno: perché occorre in verità che una parola, una parola vecchia, scivoli su un evento come su una buccia di banana, e ammacchi quanto basta il suo significato. Badiou la chiamerebbe una decisione ontologica, perché in tutto questo ci vuole sempre qualcuno che la prenda. Per me è una specie di possessione, perché è come se si entrasse in possesso di qualcosa in grado di possedere chi la possiede. La questione è importante, perché senza una tale reciproca possessione (che al dunque non è un invasamento a senso unico ma un’interfaccia) non ci sarebbe nemmeno quella che Badiou chiama «produzione soggettiva». Uno slittamento semantico (un nome vecchio tolto via dal discorso del padre e forzato a significare altro) dà nome a un evento che altrimenti nemmeno sarebbe detto, e nemmeno esisterebbe. E nel dar nome a quell’evento che altrimenti nemmeno ci sarebbe, quel piccolo slittamento semantico produce il suo soggetto, liberandolo da un precedente assoggettamento. Vi sembra poco?

Ne fornisce un esempio che cade opportuno lo storico Paul Veyne, soffermandosi in un saggio apparso nel 2007 sulla cosiddetta conversione di Costantino, che poi fu semplicemente la decisione da parte del generale, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, di assumere un segno, un segno onirico che prima non c’era (non la croce ma il crisma che aveva sognato) come augurio di vittoria (perché significava affidarsi, e per l’appunto alla lettera, a un dio che si diceva onnipotente), in un’epoca in cui gli appartenenti alla nuova religione erano al massimo il cinque o il dieci per cento della popolazione dell’Impero. Quanto occorreva a Costantino, per produrre la sua soggettività «imperiale» (e proprio per questo si trattò di una reale conversione, non di una semplice decisione politica), era dunque a portata di mano, anche se non aveva il nome che quella decisione contribuì a dargli. Scegliere la religione di una minoranza, in altre circostanze persino perseguitata, indossare sul proprio elmo il marchio del nome del figlio (chi, se non uno sguardo paterno, avrebbe mai interpretato quelle lettere incrociate?) fu certo un azzardo, ma il dio invocato come padre fantasmatico, non era solo l’invitto e non si limitava a promettere salvezza (come Mitra, l’altra divinità particolarmente cara ai soldati). Era qualcosa in più: si diceva unico (geloso, cosmico), dirimendo una volta per tutte la questione della legittimità del potere (che poi era la questione di Costantino). Quel dio era Dio, come Costantino sarebbe stato Costantino assumendo non le sue insegne ma quelle di un figlio (sacrificato al padre). Un figlio dell’evento. E non è mica un caso che lo storico francese per farci capire meglio il concetto (dell’evento come slittamento semantico nel discorso del padre, si potrebbe dire), ci inviti a fare un unico balzo dalla notte fra il 27 e il 28 ottobre del 312 nei dintorni di Roma, a quella fra il 25 e il 26 ottobre del 1917, a San Pietroburgo. Lì, occupato l’istituto Smolny, i bolscevichi avevano installato il loro comitato centrale, e in una camera, gettati a terra due materassi, invece di dormire, Lenin e Trotski trascorsero l’intera notte a chiacchierare. Il giorno dopo tutto il potere sarebbe stato affidato ai soviet, cioè a una minoranza dell’arcipelago rivoluzionario; e soviet (che voleva dire semplicemente «consiglio», e derivava come se non bastasse dallo slavo ecclesiastico), come dio (che indicava una delle tante possibili «luminose» divinità, mica il solo fulgido padre geloso), avrebbe assunto un significato determinato dall’evento stesso, modificando addirittura il soggetto che l’aveva enunciato.

Sono solo esempi scelti in quanto macroscopici, badate bene, e vogliono dire un’unica cosa: che non esiste un meccanismo a orologeria dialettica che faccia scattare questo o quell’evento, e questa o quella produzione di soggettività. Tutto quanto occorre a che un elemento non messo nel conto possa manifestarsi non è niente di meno (sempre con la terminologia di Badiou) che una «forzatura», che fa sì che una cosa che apparentemente non c’era, non è che d’improvviso ci sia, di più: venga letteralmente posseduta, ci sia insomma qualcuno che la possieda (nel doppio senso di prima). Ciò che non era, ha d’improvviso un nome, e se ne entra in possesso. L’avere è un’azione di forza sul vuoto dell’essere; e persino il senso, se non è ridondante (ecco dove andava a parare l’estremo Joyce), lo è. Ma la questione vera è che tali forzature abbisognano per consolidarsi di un susseguirsi di altri eventi, cioè di altre «possessioni». [Se le gerarchie militari dopo la morte di Giuliano l’Apostata, che aveva avuto facile gioco a reintrodurre il paganesimo succedendo a Costanzo II, non si fossero accordate per motivi del tutto corporativi su un imperatore cristiano, Gioviano prima e poi Valentiniano, le cose per il cristianesimo avrebbero preso tutt’altra piega]. Capirete bene che da quanto detto si ricavano alcune considerazioni interessanti: 1. tutto ciò che accade in noi non accade per forza di cose ma per forzature (su un discorso che si dice stabile e imperituro, come quello del padre nel patriarcato); 2. un forzatura prenderà possesso di un evento con un nome vecchio che dia ragione del fatto che nulla è accaduto che non lo fosse già; 3. l’evento si manifesta insomma il più delle volte come negazione di se stesso, al punto che a non dare nuovo senso al nome che lo dice già accaduto (a non assumere soggettivamente lo slittamento semantico che lo copre), è come se non si fosse nemmeno manifestato.

Prendiamo la crisi economica. C’è, e come no, e nel suo nome (già: nel suo nome) si è eroso lo stato sociale, e ora si attacca il lavoro salariato; eppure non si può dire che non ci sia chi ne tragga degli utili, dopo averla in buona sostanza provocata. La crisi è detta mondiale, ma innanzi tutto non onora per nulla il suo aggettivo, perché non riguarda per davvero l’interezza del globo (anzi: l’Asia e l’America latina parrebbero esserne oramai tanto fuori da trarne inattesi vantaggi). E poi, quanto al sostantivo, se è una crisi, non lo è per tutti, non nella stessa accezione semantica se non altro. Se qualcuno continua a giovarsi di una simile congiuntura, allora l’economia, a intenderla nel verso del suo stesso discorso, procede di slancio, dal momento che il capitalismo porta a segno il suo cómpito: quello di generare profitto, e mica per tutti (altrimenti non ci sarebbe profitto ma ridistribuzione delle risorse). E dunque, anche da un punto di vista meramente logico, non c’è crisi. C’è piuttosto quello che c’è sempre stato: il capitalismo (che, non mi stancherò mai di ripeterlo, è sin dal suo sorgere crisi). Insomma, c’è un bel balletto semantico (mi piacerebbe chiamarlo «fucked ballet», come Peckinpah era solito definire la concitata scena finale del Mucchio selvaggio), che rende progressivamente inservibili molti dei termini utilizzati a descrivere quanto sta capitando. E non è un caso.

Le parole hanno un peso, soprattutto quando il loro significato slitta, lasciando apparentemente inalterato il discorso. Ne è cartina di tornasole il concetto di «salario medio». Preso per quello che è, come valore decontestualizzato, il «salario medio» aumenta, non c’è che dire, persino in Italia. E non è strano? Per nulla, perché una media è una media, che non fa altro che mettere insieme tutto quello che c’è (il salario di Marchionne con quello dell’operaio alla catena di montaggio), per poi ridistribuirlo, diciamo così, in modo fantasmatico. Gli economisti più avvertiti sono stati costretti a introdurre il concetto alternativo di «salario mediano» (anche in questo caso si è dovuto riequilibrare qualche seme contestuale per dare senso nuovo all’aggettivo chiamato a sostituire il precedente, divenuto oramai inutilizzabile), intendendo non la media ma la capacità d’acquisto della classe che storicamente ne aveva assunto il nome. Il reddito della «classe media» (oramai «mediana», tra poco magari «mezzana» o chissà che cos’altro) s’abbassa, e il «salario medio» aumenta. Della gloriosa classe che credeva d’incarnare il capitalismo si salva insomma l’aggettivo (diciamo così: un avere puro, il «medio» opportunamente spiritualizzato), mentre il sostantivo si dichiara per quel vuoto che è, e va in pezzi.

Jacques Généreux, in un suo saggio giunto straordinariamente puntuale nel 2006, quando insomma a quello che si racconta nelle ricostruzioni après coup eravamo soltanto alla vigilia della cosiddetta crisi, questa sperequazione per cui siamo stati costretti a stropicciarci la ghiandola semantica l’ha battezzata a sua volta con un neologismo, che è in realtà una parola-baule (bentornato signor Joyce) assai trasparente: «dissocietà» («dissociété»). E il punto è esattamente questo: la dissocietà (che dissocia la «classe media» dalla media, e il lavoro salariato dai suoi diritti) non ha mica atteso la crisi dei titoli subprimes per manifestarsi; perché la condizione attuale nella quale siamo immersi, che per tanti lavoratori è perdita o mancanza di lavoro, per molti piccoli investitori è decrescita, e per le giovani generazioni rischia persino di essere un bagno di sangue, mentre per tanti manager (con o senza maglioncino) è vertiginoso incremento dei propri profitti, comincia molto prima. La crisi si chiama neoliberismo, che non è che in tutto questo sfacelo abbia perso, anzi: ha talmente vinto che ha divorato la nazione stessa che credeva di imporlo al mondo (per poi passare a quelle che maggiormente si erano affrettate a riconoscersi nel suo impero fantasmatico).

Questa crisi ha radici molto profonde, e segna in realtà uno slittamento semantico fondamentale per il destino dell’Europa: quello che ha fatto sì che anche in un’economia assistita, come in buona sostanza fu quella continentale, l’unico capitalismo degno di questo nome divenisse da una certa data in poi quello di marca anglosassone, che nel frattempo aveva a sua volta subito lo slittamento semantico che ha reso sostanzialmente sinonimi (Foucault ci aveva avvertiti) «liberismo» e «neoliberismo». [Eppure ha ragione l’organismo collettivo che si fa chiamare Cercle des économistes di cui vi ho parlato in un precedente invio: se esistono altre forme di capitalismo nei continenti attualmente emergenti, basati in buona sostanza, come avviene in modo conclamato per la Cina, non sulla finanziarizzazione ma sull’eccedenza commerciale, la rotta di collisione fra i vari capitalismi sarà inevitabile]. Se qui da noi si attacca adesso in modo tanto sfacciato la relazione salariale (che dovrebbe costituire l’altra gamba, col mercato, dell’economia capitalista), è perché il neoliberismo per affermarsi non può che far saltare le regole stesse del liberismo, per crearne di nuove (magari severissime...) al solo scopo di aggirarle (fuga schizo e controfuga paranoica, per tornare a scomodare Deleuze e Guattari, che alla fin fine avevano visto meglio di tutti, e assai per tempo). Ora, l’erosione da parte dei neoliberisti (scuola di Chicago in testa) ai danni delle istituzioni del liberismo classico è stata certo lenta e sistematica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ma ha toccato il suo apice, consumando al dunque (e alla lettera) la sua vittoria, negli anni Novanta del secolo scorso, quando furono in molti, venuta meno la contrapposizione fra i blocchi, a decretare Impero ciò che in verità continuava a restare il solito Sacro Romano Emporio.

La presunta vittoria ideologica americana, del resto, con la dissoluzione dell’URSS, sembrò avere in quel decennio un diretto corollario economico, che tante nazioni europee si affrettarono a issare a vessillo della definitiva vittoria della libertà: non esiste bene pubblico che non sia la liberalizzazione finanziaria. [In Italia tutto ciò accadde addirittura prim’ancora che scendesse in campo il cavaliere senza scrupoli e senza regole: ci pensarono, dopo gli ultimi pseudosocialisti sul viale del tramonto, i primi postcomunisti folgorati sulla via di Washington, a spianare quella per Arcore]. La nuova Russia di Elstin (etilista e familista come alla fin fine è ogni buon papà) si offrì del resto, ricorderete, da autentica vittima sacrificale, e tanti bravi economisti americani (tutti di ottimi studi e folgoranti carriere accademiche, insomma autentici Harvard Boys pronti al Nobel) sbarcarono da profeti nel vecchio Impero del Male desideroso di redimersi (con effetti così devastanti, e una cocciutaggine nel proporre i loro preconcetti ultraliberisti tanto demenziale, che a farne un film ci vorrebbero i fratelli Cohen, se non il Landis dei tempi d’oro). Insomma, tutto sembrava filare nella direzione del mondo unipolare, con tanto di finanza creativa (pronta a lottare contro l’idra dai mille lacci e laccioli) e il contraltare dell’arcigno Fondo Monetario Internazionale che, stabilmente legato agli USA, spingeva invece ogni economia nazionale (ricattata dal cosiddetto «consenso di Washington») verso un equilibrio finanziario a breve termine che rinunciasse a ogni rischiosa politica di sviluppo. [Neanche a dirlo, c’è l’intera vertiginosa parabola del nostro attuale Ministro dell’Economia: dal primitivo ottuso entusiasmo per la liberalizzazione finanziaria all’attuale ottuso rigore senza piani d’investimento, tutto in lui è cambiato, se non l’aggettivo]. Insomma, l’America, liquidata infine ogni eredità del New Deal, procedeva ultraliberista verso il suo destino radioso, senza più nemmeno un nemico... se non se stessa.

In un saggio apparso nel 2008 (che si ha qualche speranza di vedere tradotto in Italia), Jacques Sapir ha facile gioco a dimostrare che la vera congiuntura che ha scompaginato l’assetto del vecchio mondo (quello sortito dalla guerra fredda), e di cui quella che ora attraversiamo non sarebbe altro che una conseguenza, si sia determinata in verità fra il 1997 e il 1999 con quella crisi che, sebbene all’epoca piacesse immaginare limitata ai mercati asiatici, si sarebbe ben presto diffusa anche in America latina (per ritornare poi come un boomerang alla base, con l’esplosione della bolla di Internet del 2000). Ciò che dunque ha determinato, a detta dell’economista francese, la fine dell’allora prefigurato «secolo americano» (e della globalizzazione unipolare, con il conseguente ritorno delle nazioni e il costituirsi di nuove inedite alleanze), è stata l’incapacità da parte del Fondo Monetario Internazionale (e dunque degli USA che in buona sostanza lo gestiscono) di fronteggiare, malgrado si fosse impegnato con aiuti massicci, gli effetti più devastanti della crisi (dalla svalutazione della moneta thailandese del 2 luglio 1997 a quella della moneta brasiliana degl’inizi del ’99, passando per la bancarotta argentina). Quel fallimento, insomma, rappresentò agli occhi del mondo un autentico scacco subito dalla potenza americana, e addirittura sul suo terreno specifico (la liberalizzazione finanziaria imposta su dimensioni globali), cui l’amministrazione dell’epoca (quella di Clinton) reagì con una complessiva rimilitarizzazione (aprendo dunque la strada alle avventure mediorientali di Bush figlio), di cui si fece pretesto (sempre nel 1999, ben prima dunque dell’11 settembre) la questione del Kosovo. L’America, che si era per anni vantata del suo soft power, riscopriva, in un mondo che sulla carta non gli opponeva più nemici, la necessità di tornare alle maniere forti (ma solo a patto di un’ulteriore questione nominale: quella di non pronunciare mai la parola «guerra»).

La circostanza colpisce, più delle bombe che piovvero all’epoca in Serbia: proprio mentre una parte consistente d’Europa (ivi compresa l’Italia), probabilmente atterrita dagli effetti devastanti della liberalizzazione finanziaria (che aveva sostanzialmente accettato supinamente), tentava di fare corpo unico con gli USA nel gestire quella che non era altro che una sua ennesima questione interna, quasi in sincrono coi bombardieri della NATO prendeva lentamente il volo l’economia russa (sottratta già con Primakov alla sfera americana, con tanti saluti ai bravi ragazzi di Harvard tornati, in attesa del Nobel, a gironzolare nei giardini del campus), e con una maggiore accelerazione quella cinese. Certo quell’intervento militare aveva fra i suoi obiettivi secondari anche quello di scoraggiare i due futuri concorrenti (attaccare la Serbia ha sempre significato mandare un avvertimento alla Russia; e il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado da parte della NATO, se fu un errore, fu intelligente, quanto meno come le famose bombe). Ma non solo ciò non avvenne, ma ebbe anche come effetto collaterale (come poi sarebbe accaduto per l’Afganistan e l’Iraq) lo svuotamento di significato di alcune parole d’ordine care al pensiero liberale (diritti degli uomini, libertà, autodeterminazione, umanitarismo ecc.), divenute da quell’occasione in poi, dal momento che coprivano un massiccio intervento militare nemmeno legittimato da una dichiarazione di guerra, sostanzialmente inutilizzabili (se non come minacce). Né avrebbe potuto essere altrimenti: il neoliberismo si afferma in quanto fuga da ogni costrizione, al punto che dissolverebbe nel giro di poco persino il collante ideologico, se non giungesse puntuale una controfuga paranoica (quale fu, con la precisione di un timer, l’ingresso nell’orizzonte della politica americana del fondamentalismo islamico). Ma il processo di erosione, dopo lo scacco economico (e poi ideologico) americano fra il 1997 e il 1999 è stato inarrestabile; ed è toccato proprio alla Russia essere la prima nazione a uscire dal Fondo Monetario Internazionale, e dal «consenso di Washington», seguita a ruota dalla Thailandia, dal Brasile, dall’Argentina, dalla Bolivia, dalla Serbia, dall’Indonesia ecc.

«Il capitalismo ha vinto», ci hanno ripetuto al crollo dell’Unione Sovietica. «Lo vedete? È ovunque, e il mondo è finalmente unificato». Invece sono trascorsi appena vent’anni, e non solo è in atto un’autentica frammentazione che parrebbe inarrestabile, ma l’ipotesi di un conflitto, di un qualsiasi conflitto, si accompagna oramai stabilmente con la questione stessa della scarsezza di risorse. [Ve lo ricordate quante volte in questi anni il solito giornalista di turno un po’ farabutto ci ha ripetuto che, dati economici alla mano, se volevamo fare il pieno di benzina, bisognava bombardare Bagdad? Date tempo al tempo, e vedrete che per abbonarsi alla pay-tv bisognerà colpire Teheran, o per comprare la playstation al pupo sarà necessario radere al suolo Belgrado]. E se tutto ciò è avvenuto, è solo perché un evento si è dato, ma solo per essere nascosto dallo slittamento semantico che, se nessuno pronuncia in quanto tale, lo rende inavvertito. Nominare un evento, assumere in prima persona il senso pieno di uno slittamento («tutto il potere ai soviet», «con questo segno vincerò»), è un atto rivoluzionario, o una fuga schizo se preferite; occultare le tracce della modificazione intervenuta, ricondurla al solito discorso del padre che non c’è ma s’incarna sempre identico a se stesso negl’innumerevoli papà che si limitano a parlare in playback, beh questa è la vera e propria controfuga paranoica.

Perché adesso, con tutto quello che è accaduto dopo il crollo del sistema bipolare, e con questa crisi che ne è l’unico reale effetto, possiamo dircelo: il capitalismo ha vinto ma non prima di aver liquidato il suo discorso ideologico. La vittoria ideologica, se mai c’è stata, l’aveva ottenuta la New Deal Coalition (attualmente Roosevelt, come esempio di «capitalismo civilizzato», viene citato solo in Russia... e figuratevi!), da un lato, e lo stato sociale in Europa dall’altro; ma quello che poi ha tratto vantaggi da tanta inattesa fortuna è stato tutt’altro capitalismo. La parola è la stessa, come resta apparentemente lo stesso l’animale infestato da un parassita. Il neoliberismo ha prosperato incistato nel pensiero liberale, e alla fine lo ha svuotato. Ed è questo il capitalismo che ci spetta, in America come in Europa, probabilmente fino alla consunzione. Gli altri capitalismi, è inutile girarci intorno (basta vedere come sono trattati i salariati in Cina), tendono a riproporre le forme del primo capitalismo industriale: forte politica di investimenti su autentiche sacche antimercato (le imprese locali, per intenderci) ed estroversione della crescita (con tanto di eccedenza commerciale; e non è un caso che proprio a partire dal biennio 1999-2000 si sia avuta quella che gli economisti chiamano «svolta predatrice» nel commercio internazionale). Sia come sia, gli attuali capitalismi, neoliberisti o veteroindustriali, possono ancora trovare un terreno comune su due obiettivi che continuano a condividere (e in virtù dei quali non a caso tentano di «dialogare»): lo svuotamento dei principi liberali (il capitalismo non è il liberalismo, che è solo il suo discorso di copertura) e la negazione dei diritti dei lavoratori.

Marchionne da questo punto di vista resta encomiabile, perché si spende come pochi per un mondo unico e pacificato (la finanza di qua, e la produzione di là), e s’impegna come può per rivelare a tutti noi quanto il neoliberismo sappia aspramente combattere il suo acerrimo nemico, che non è altri che lo stesso capitalismo liberale. Ce la saremmo mai aspettata in certi anni una simile contrapposizione? [Sì, se avessimo letto bene L’anti-Edipo]. «Se non rinunciate ai vostri diritti», ha detto agli operai, «investo i soldi (mica i miei, quelli della Fiat) altrove». E in attesa che un simile ricatto potesse essere metabolizzato (se non salutato da tanti come una vera rivoluzione liberista), se n’è andato a spasso, e sempre senza un giorno di ferie o un’ora di sonno, con la deriva dei continenti, per scoprire due paesi di Bengodi pronti ad accogliere con entusiasmo il ritorno di papà: uno dei quali siamo soliti ritenere povero, veteroindustriale e virtualmente canaglia, la Serbia, mentre l’altro ce lo raccontiamo comunque ricco, sviluppato e sicuramente virtuoso, dal momento che si tratta niente meno degli Stati Uniti. Da una parte e dall’altra (così radicalmente contrapposte in quel non tanto lontano ’99), ci ha spiegato, i lavoratori non avrebbero fatto storie, e avrebbero accettato condizioni ben peggiori, spingendosi finanche a lodare il ruolo svolto dal sindacato in America, senza però avere il cuore di farlo per gli altrettanto commendabili politici serbi. [Alla fin fine non possiamo dargli torto: abbiamo anche qui da noi una malavita rigogliosa, e se imparassimo a prendere a modello i sindacati americani, quadri e funzionari più graditi alla Fiat non mancherebbero di certo; senza dimenticare che, quanto alla tenuta morale dei politici, coi serbi ce la giochiamo alla pari].

Ottenuto quanto voleva col referendum, Marchionne ha però rivelato inatteso il lato generoso della faccenda: «aumenterò gli stipendi», ha detto, «porterò gli operai nella gestione dell’azienda, e divideremo gli utili». Sentendosi però in dovere di aggiungere immediatamente: «Sempre che ce ne siano, di utili». Del resto da un po’ di tempo a questa parte, lo sappiamo, non è che la Fiat faccia faville (in questi giorni strategicamente strombazzano gli utili del 2010, che però neanche coprono il disavanzo dell’anno precedente), eppure la retribuzione di Marchionne (come quella di tutti i manager) aumenta quasi in maniera esponenziale. Ecco dunque due assiomi del neoliberismo (finanziario) nella sua lotta contro il capitalismo liberale: 1. colui che viene preposto da una qualsivoglia intrapresa al cómpito di produrre utili, non è necessario che li faccia (e se non li fa mica perde il lavoro); 2. chi deve fare utili, li fa o non li fa, aumenta il suo salario. Se questo è vero per Marchionne, lo è anche per i grandi azionisti, che vivono in una sorta di fluido finanziario in cui galleggerebbero sempre, persino se l’industria fallisse, perché non è certo dalle intraprese produttive che si trae oramai guadagno. Del resto, l’avrete notato, non c’è manco più un padrone, nemmeno a pagarlo a peso d’oro (a esercitare violenza non è mai un padrone, se mai un gestore), né di conseguenza un giorno lavorativo che sia uno; solo tanti papà col sorriso bonario, e un’eterna domenica. Una di quelle domeniche in cui uno non sa nemmeno dove andare a nascondersi, perché c’è in giro papà, con indosso il suo maglioncino, che fa gli aggiusti in casa. E quando giungerà la sera, allora sì: tutti a fare quattro salti con papi!

Aha, dimenticavo. Questa cosa nuova qui, questa che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e che non si sente nemmeno più il bisogno di occultare, ha un nome vecchio. Si chiama «lotta di classe». Il neoliberismo, se vuole sopravvivere a se stesso, non può che praticarla, e addirittura su vasta scala. È un rischio, ma il neoliberismo è tale solo se lo corre. Oh cribbio, la lotta di classe? Ma non era un ricordo del passato? Sì, quanto meno nel vecchio senso di ballo figurato (non si chiamava del resto «concertazione»?) che aveva assunto col tempo in Occidente, oppure in quello da parata con cui si commemorava (e tuttora si commemora) nelle pantomime comuniste della vecchia forma statuale asiatica. Eppure, lasciate solo che, slittato il senso, si torni infine a pronunciarla al punto da produrre soggettività, e vedrete che, com’è che accade, chi la cerca l’avrà. Magari lo stiamo al momento ripetendo solo alla testa mozza e sotto ghiaccio del povero Alfredo Garcia, immolato al discorso di papà, così come avveniva in un altro straordinario film di Peckinpah; eppure, date solo uno sguardo a ciò che sta accadendo al di là del nostro braccio di mare, e non sarà difficile capire che, malgrado continui a essere sempre festa, toccherà proprio a chi non è stato invitato, se non come esecutore del discorso del padre, tornare a casa a festeggiare papà.