di Stefano La Via
Stefano La Via si è formato presso le Università di Roma "La Sapienza" e di Princeton.
È professore associato di Storia della poesia per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia).
Ha pubblicato numerosi saggi sul rapporto fra poesia e musica in varie epoche storiche, dal medioevo ad oggi.
Fra i suoi libri:
Il lamento di Venere abbandonata. Tiziano e Cipriano de Rore, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1994;
Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006
di Cecilia Bello Minciacchi,
Paolo Giovannetti,
Massimilano Manganelli,
Marianna Marrucci
e Fabio Zinelli
di Yolanda Castaño
di Domenico Ingenito & Fatima Sai
di Maria Teresa Carbone & Franca Rovigatti
a cura di Massimo Rizzante e Lello Voce
Anche se ultimamente il mio interesse sta decisamente calando, ho sempre seguito il Festival, sì quello di Sanremo, e per almeno due motivi.
Il primo è quello già perfettamente spiegato da Serena Facci e Paolo Soddu nell’Introduzione all’ottimo libro Il Festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione (appena edito a Roma dalla Carocci): “Lungi dall’essere specchio della società e del costume, Sanremo ha assunto precocemente e ha conservato le caratteristiche di un più modesto, ma anche più interessante discorso sullo stato di salute della nazione”; “più prosaicamente”, rispetto per esempio al cinema nazionale sorto nel secondo dopoguerra, sin dagli esordi la canzone di Sanremo “ha mostrato come l’Italia era”. Certo, rimane da chiedersi se il Festival abbia realmente “conservato” simili “caratteristiche”, per lo meno negli ultimi quarant’anni. La fondazione del Club Tenco, nel 1972 (a cinque anni dal suicidio sanremese del grande cantautore genovese), e l’istituzione, nel 1974, di una parallela “Rassegna della canzone d’autore”, a tutt’oggi in pieno sviluppo, sono fatti che parlano da soli. Evidentemente, sin dai primi anni Settanta (ma anche prima), non tutti gli italiani si sentivano rappresentati da quel genere di canzone e da quel modo di presentarla al pubblico; non tutti noi, in altre parole, anche a prescindere dalla qualità delle canzoni presentate al Festival ufficiale, condividevamo l’opinione che esse “mostrassero” realmente “come l’Italia era”.
Eppure l’osservazione di Facci e Soddu conserva una sua validità di fondo, per certi versi anche dolorosa: ancora oggi il “discorso” del Festival continua ad offrirci una panoramica della nostra realtà, del nostro “stato di salute”, tutt’altro che esauriente e sempre meno esaltante, sì, ma di certo più ampiamente e impietosamente rappresentativa di quella proposta dalla Rassegna (che pure, a sua volta, si meriterebbe per lo meno la stessa visibilità!). Oggi più che mai rifiutarsi di seguire il Festival, con la scusa per altro comprensibilissima che è diventato ormai da tempo inguardabile e inascoltabile, significa nascondere la testa sotto la sabbia (e se questo mi risulta impossibile, sarà forse perché mi sento anch’io molto più canguro che struzzo?).
Va anche detto che il Club Tenco, sin dalla nascita, si poneva un obiettivo completamente diverso da quello del Festival. Come si legge nello Statuto fondativo: “Lo scopo del Club è quello di riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi Tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo”. Fondare un Club, e una Rassegna, allo scopo di sostenere una “canzone d’autore” intesa come “canzone di qualità” significava, non poi così implicitamente, applicare un giudizio di valore decisamente negativo, piuttosto netto e pesante, non a una singola canzone, e nemmeno a uno specifico repertorio, ma all’istituzione stessa dell’ufficiale “Festival della canzone italiana”: se volete ascoltare canzoni di qualità, insomma, non le troverete certo al Festival, ma alla Rassegna del Club Tenco. Veniamo così al secondo motivo del mio interesse per il Festival di Sanremo, che è invece legato ad un aspetto volutamente trascurato da Serena Facci e Paolo Soddu. Su basi epistemologiche distinte ma convergenti, in entrambi i casi perfettamente legittime, tanto l’etnomusicologa quanto lo storico ritengono che sia per lo meno “difficile […] dividere il giusto dallo sbagliato, il bello dal brutto. Ci siamo quindi trovati concordi nel non esprimere giudizi estetici sulle canzoni, ma piuttosto descrivere il ruolo storico di alcune modalità di organizzazione dei suoni e dei personaggi che hanno loro dato voce”.
Alla luce delle rispettive dichiarazioni d’intenti, dunque, le posizioni dei fondatori del Club Tenco e dei due studiosi del Festival appaiono diametralmente opposte. A ben guardare, tuttavia, è possibile individuare più d’un confortante elemento di continuità, e persino di reciproca interazione. Vale la pena fare qui di seguito almeno due esempi che possano rendere l’idea.
Serena Facci (che poi è anche una carissima amica oltre che una delle mie più stimate colleghe universitarie) non ha mai avuto problemi nel manifestare apertamente la sua passione per svariati autori-cantanti sanremesi, a partire da Domenico Modugno. Se la sua splendida analisi poetico-musicale di Nel blu dipinto di blu spicca anche come la più estesa e accurata dell’intero libro, lo dobbiamo soltanto a un puro interesse storico-sociologico ed etnomusicologico, oppure anche a un pur intimo apprezzamento della canzone? Se la più celebre canzone di Modugno non le fosse piaciuta, le avrebbe dedicato così tanto spazio, e sarebbe giunta a risultati così apprezzabili? Anche altrove, per fortuna, il persistente rigore scientifico della studiosa non è tale da ammutolire completamente la voce—e con essa “il giudizio estetico”—tutt’altro che neutrale dell’ascoltatrice.
Rovesciando la prospettiva, prendiamo il caso del compianto Sergio Bardotti (altro ammiratissimo amico): anzitutto, uno dei grandi protagonisti della nostra canzone d’autore, in veste sia di ‘paroliere’ (ma meglio sarebbe dire ‘poeta per musica’), sia di traduttore e divulgatore dei più sommi canzonieri d’oltralpe e d’oltreoceano (da Brel a Buarque), sia di illuminato produttore discografico (dal progressive rock nostrano al De André di Non al denaro, non all’amore né al cielo, fino ai tanti album italo-brasiliani). Mi piace aggiungere con tutta la dovuta enfasi, soprattutto in questa sede, che fra le sue prime e più pionieristiche imprese c’è anche l’edizione di un’intera collana discografica dedicata alle letture autoriali di poeti come Montale, Ungaretti, Pasolini. Eppure lo stesso Bardotti è stato, fino all’ultimo anno di vita, anche uno dei più assidui sostenitori e organizzatori del Festival di Sanremo, nel quale ebbe modo di trionfare anche in veste di autore (nel 1968 con Canzone per te, scritta insieme a Sergio Endrigo, e nel 1989 con Ti lascerò, cantata da Anna Oxa e Fausto Leali). Il che non ha certo impedito al Club Tenco di eleggerlo fra i suoi principali ispiratori e beniamini, né di tributargli svariati premi e omaggi (dal Premio Tenco, 1983, al libro con CD Se tutti fossero uguali a te e al doppio album Bardóci, entrambi del 2008).
Molti altri esempi servirebbero non certo ad annullare ma almeno a diminuire la distanza che separa il Festival dalla Rassegna, e per certi versi anche una visione rigorosamente storico-sociologico-antropologica del fenomeno canzone da un’altra più emotivamente coinvolta, nonché più esteticamente orientata. La mia posizione, anche in questo caso, tende ad essere, se non proprio equidistante, sicuramente trasversale.
Anch’io, come i fondatori del Club Tenco, credo nell’esistenza di una “canzone d’autore”, distinguibile da altre declinazioni più commerciali e meno interessanti dello stesso genere; tuttavia, non sono convinto che basti dedicarle un Club e una Rassegna per garantirle un qualsivoglia marchio esclusivo di “qualità”—a meno che non si definiscano con una certa precisione i criteri in base a cui stabilire che quella canzone è d’autore e quell’altra no (impresa quanto mai ardua, se non impossibile). Anch’io, come gli autori del libro sanremese, non mi permetterei mai neanche per scherzo di “dividere il giusto dallo sbagliato, il bello dal brutto” come se si trattasse di categorie oggettive; tuttavia, diversamente da loro, non ho alcun problema ad affermare che alcune canzoni mi emozionano profondamente, nutrono la mia anima come il mio intelletto, insegnandomi sempre qualcosa – mentre altre canzoni, al contrario, mi lasciano da ogni punto di vista indifferente, riuscendo tutt’al più a destare in me sentimenti non proprio esaltanti di rabbia, disgusto, e simili. E lo stesso vale per i loro rispettivi autori: sento che i primi sono stati capaci di trovare una voce poetico-musicale reale e coerente, in grado di esprimere nell’arco di un intero canzoniere una personale visione del mondo; mentre in altri casi, non riuscendo a percepire niente di simile ad una voce, mi risulta impossibile individuare anche un ‘autore’ vero e proprio. Sia come studioso, sia come semplice ascoltatore, non mi interessa affatto dimostrare la ‘verità’ dell’una o dell’altra cosa; posso tutt’al più ambire ad illustrare e argomentare, sulla base di dati oggettivi (quelli emergenti da una vera analisi poetico-musicale), le ragioni di un giudizio di valore che rimane inevitabilmente soggettivo, relativo, indimostrabile. Il massimo risultato cui io possa aspirare sarà sempre quello di ‘conoscere meglio’ l’opera amata insieme alle ragioni del mio amore, e al contempo di elevare il mio apprezzamento dallo stato di una reazione istintiva (pur bellissima e importante) a quello di un giudizio di valore vero e proprio, che possa apparire legittimo e convincente—non necessariamente condivisibile—anche dagli altri.
Non ho mai studiato a fondo una canzone sanremese, ma non escludo che un giorno o l’altro—stimolato anche dal libro di Facci e Soddu—mi deciderò a farlo. E ciò perché non poi così di rado, seguendo un Festival, mi sono imbattuto in canzoni che mi son sembrate veramente belle, emozionanti, ben costruite e altrettanto bene arrangiate ed eseguite, talora persino innovative, necessarie, autenticamente ‘autoriali’. Proprio così: anche al Festival di Sanremo, non solo alla Rassegna del Club Tenco, è… (ma forse sarebbe il caso di dire era) possibile ascoltare canzoni di qualità, scritte e cantate da ‘autori’ dotati di ‘voce’ (compresi alcuni che magari non hanno mai neanche immaginato di averla). Se dovessi elencarle tutte (e forse un giorno lo farò) ne verrebbe fuori una lista sorprendentemente lunga, per quanto inevitabilmente discontinua e via via sempre più frammentaria. Pochissimi, in verità, sarebbero i titoli tratti dalle edizioni degli ultimi venti/trent’anni; ormai da tempo, ebbene sì, ho rinunciato alla più remota aspettativa anche solo di una perla, una sola, che possa darmi un qualche salutare brivido di emozione.
Fino a qualche anno fa riuscivo ancora a riunirmi con un gruppo di amici romani per assistere alla finale, con uno spirito per la verità più ‘goliardico’ che ‘eroico’ (o se si vuole, più sadico che masochistico); ci divertivamo a recensire e a votare le nostre ‘canzoni preferite’, selezionando non tanto quelle più ‘belle’, quanto semmai quelle che soddisfacevano tutti i più convenzionali requisiti della canzone festivaliera: per esempio, la struttura progressiva e ‘orgasmica’ della Strofa → Ritornello, oppure l’impiego di immagini e figure retoriche più o meno leziose, romanticheggianti, stucchevolmente consolatorie, ma immancabilmente declinate al futuro. Era forse anche un modo come un altro per esorcizzare in qualche modo la realtà che ci trovavamo di fronte, sapendo perfettamente che non ci era poi così totalmente estranea. E sono certo che molti di noi, nell’intimo, speravano di ascoltare anche qualcosa di veramente bello ed emozionante: quando ciò accadeva, almeno a me, non solo non lo nascondevo, ma ero capace di portarmi dietro quel sacrosanto motivetto, di canticchiarmi quel piccolo capolavoro di ‘canzonetta’ solo apparentemente ‘leggera’, anche per settimane.
Da tempo simili rituali conviviali sono diventate inconcepibili: non solo sono scomparse le ‘canzoni’ (belle o brutte che siano!), ma non c’è davvero più niente, ma proprio niente, da ridere: la realtà (culturale? nazionale?) rappresentata (o televisivamente artefatta?) dal Festival descrive uno “stato di salute” che si fa ogni anno più agghiacciante. L’anno scorso credevo si fosse toccato il fondo: non tanto perché le uniche due canzoni accettabili (quelle di Malika Ayane e Noemi) fossero state eliminate—è stata sempre questa la prassi—ma perché a trionfare erano state delle non-canzoni davvero grottesche, incapaci di rappresentare una qualsivoglia realtà che possa definirsi umana: soprattutto la realtà del Pupino e del Principino (avvallata dall’arrogante Lippino giustamente punito dall’implacabile Destino), per intenderci; ma anche quella capace di violentarci con paronomasie cacofoniche del tipo “far l’amore in tutti i modi in tutti i luoghi in tutti i laghi”—che definire ‘pornografiche’ sarebbe un grandissimo complimento.
A simili mostruosità, così ci veniva da più parti annunciato, il Festival di quest’anno intendeva reagire col ‘recupero’ e ‘rilancio’ di ‘canzoni di qualità’. Ma, ahinoi, ancora una volta, erano davvero canzoni, quelle che si son cantate sul palco dell’Ariston? O erano piuttosto delle colossali prese in giro? Se non, nel migliore dei casi (concedendo ai un minimo di buona fede a taluni artisti), degli equivoci madornali? Rimane il fatto che l’intera farsa—con una sola mirabile eccezione fuori concorso—ci ha ancora una volta dato un’idea concreta, ma forse ancor più allarmante che in passato, di quale sia “lo stato di salute della nazione”.
Ammettiamo, per assurdo, l’idea che anche in questa edizione siano state presentate delle ‘canzoni’. Come si è già accennato, una delle leggi universali del Festival—disattesa solo in circostanze davvero eccezionali (1968 incluso)—stabilisce che le canzoni più ‘belle’ vengano immancabilmente eliminate (da chi, poi, non è mai stato così chiaro) per far posto al trionfo di quelle più ‘brutte’. Ebbene, quest’anno, anche rispetto all’anno scorso, è avvenuto persino di peggio: le prime due canzoni classificate, come al solito accuratamente selezionate fra le più inutili e insignificanti, avevano anche la pretesa di essere delle canzoni non solo ‘originali’, ‘innovative’, ‘di qualità’ ma anche a loro modo ‘impegnate’—qualcuno ha detto persino ‘di sinistra’. In realtà tale sproporzione risulta evidente solo nel caso della canzone vincitrice, Chiamami ancora amore di Roberto Vecchioni; non in quello della seconda classificata, l’incomprensibile e surreale ancor più che qualunquistica Arriverà (Emma e Modà), che deve forse il suo inspiegabile successo al futuro tipicamente sanremese declinato sin dal titolo. Quanto al brano di Al Bano, Amanda è libera, mi ha dato meno fastidio, per delle ragioni che forse qualcuno troverà sconcertanti (pazienza). Al di là del personaggio e della voce (entrambi da tempo a dir poco anacronistici, ma forse siamo noi che lo siamo!), in questo caso almeno si è potuto ascoltare qualcosa di simile a una ‘canzone’. C’era una ‘melodia’, persino interessante nella sua progressiva costruzione e articolazione fraseologica, che veicolava in modo perfettamente adeguato una ‘storia’ raccontata in ‘versi’ a loro volta senza pretese ma efficaci. C’era, soprattutto, l’immagine verbale di “un volo a metà” che trovava la sua mimetica rappresentazione sonora in un’analoga sospensione melodico-armonica; per rendere l’effetto ancor più ‘isomorfico’, a un certo punto Al Bano sacrifica la sua stessa verve ‘belcantistica’—quasi in omaggio all’eroica protagonista della canzone—interrompendo “a metà” uno di quei vocalizzi pseudo-operistici a cui deve gran parte della sua popolarità. Può piacere o non piacere, ma si tratta comunque di un’idea, di un criterio logico in base al quale fondere parole e musica in un sol corpo. Lo confesso: fra i tre finalisti ho sperato che vincesse Al Bano, anche perché cantava la sua storia dando l’impressione, a tratti, di crederci davvero. Mentre lo dico mi viene la pelle d’oca, ma è questa la realtà.
E invece ha vinto Vecchioni. Non un tradizionale cantante festivaliero, come Al Bano, ma un ‘cantautore-intellettuale’, un ‘libero pensatore’, da sempre ‘impegnato’ e più o meno dichiaratamente ‘di sinistra’ (di recente riequilibrato in ‘centro-sinistra’), fra i più unanimemente celebrati dalla critica e dal pubblico, apprezzato anche come scrittore di narrativa, nonché per la sua intensa quanto appassionata attività didattica (in vari licei e università, inclusa quella di Pavia, dove ha tenuto un corso di Forme di poesia per musica). Vincitore di due premi Tenco alla carriera, nominato “Cavaliere ufficiale della Repubblica” dal presidente Ciampi, il suo nome figura anche fra i primi firmatari dell’appello antigovernativo in difesa della scuola pubblica. Per tutte queste ragioni, la sua figura si merita tutto il rispetto possibile. Personalmente—de gustibus…—non ho mai particolarmente amato Vecchioni, né come autore di canzoni, né come cantante interprete, né come intellettuale e teorico della canzone. Eppure l’idea che un cantautore come lui, dopo tanto tempo, in prossimità dei 70 anni, trovasse le energie e il coraggio di tornare a confrontarsi col pubblico ufficiale dell’Ariston (lo aveva già fatto nell’ edizione del 1973, con L’uomo che si gioca il cielo a dadi) non mi era poi così dispiaciuta. Come ho già detto più sopra, anche per il Festival dovrebbe esserci ampio spazio per “canzoni di qualità”, e non solo per banali canzonette scaccia-pensieri, o per prese in giro televisive; da tempo non se ne vede l’ombra: vuoi vedere che lui riesce a invertire la tendenza? E così, liberatomi di ogni pregiudizio, schivando anche qualsiasi dichiarazione programmatica, mi sono limitato ad aprire bene le orecchie per ascoltare Chiamami ancora amore…
Più che di delusione, si può parlare—più onestamente—del graduale, implacabile riemergere e consolidarsi di tutti i miei pregiudizi (che evidentemente si erano fatti da parte, ridacchiando e dandosi colpi di gomito, nella certezza di riaffiorare con rinnovato vigore). Per illustrare bene il punto, dovrei sottoporvi alla tortura di un’accurata analisi poetico-musicale: per fortuna di tutti, non c’è spazio, né tempo, né voglia. La vita è breve, e anche per questo mi sono da sempre riproposto di dedicare studi approfonditi solo alle opere poetico-musicali di cui mi capita d’innamorarmi ai primi ascolti (o alle prime esecuzioni). Nel caso in questione, che ovviamente non rientra nella categoria, mi limiterò a poche osservazioni, inevitabilmente superficiali oltre che soggettive.
La mia ‘delusione’ non riguarda tanto la sostanza formale e concettuale della canzone, in sé, quanto l’incredibile sproporzione che mi è dato cogliere fra tale sostanza e le sue pretese di ‘novità’, ‘semplice bellezza’, ‘convergenza del colto nel popolare’, persino ‘autenticità’. Tutti valori che, viceversa, sono stati subito percepiti, sottolineati ed entusiasticamente osannati da ogni singolo rappresentante della stampa e della televisione più progressista, dissidente, antigovernativa (non necessariamente ‘di sinistra’): inclusi i critici, commentatori e intervistatori di giornali che io stesso leggo assiduamente, dal “Fatto Quotidiano” alla “Repubblica”. L’immagine mediatica che ne vien fuori è quella del ‘colto’ ma umile ‘cantautore-professore’, che decide coraggiosamente di “lasciare la sua torre d’avorio” per “portare al grande pubblico i temi e i versi della musica colta con le tradizioni della musica popolare” (Guido Biondi sul “Fatto Quotidiano” del 23 febbraio); nel titolo dell’articolo appena citato si legge addirittura: “Chiamami ancora amore vince tutto e realizza, diversi decenni dopo, il sogno di Luigi Tenco: portare al grande pubblico poesia e musica”. Non potendo condividere in alcun modo l’unanime opinione di tutti questi giornalisti, molti dei quali da me stesso stimati, si potrà comprendere la natura duplice di questa mia cocente delusione.
La forma della canzone, per cominciare, non ha assolutamente niente di ‘nuovo’, e rientra semmai nel più trito e ritrito cliché del modello festivaliero sanremese: una Strofa di carattere quasi recitativo conduce gradualmente alla più melodica esplosione di un Ritornello che è a sua volta particolarmente adatto all’espressione enfatica e sofferta dei più profondi e sublimi sentimenti—quasi sempre amorosi—di cui l’anima umana possa essere capace. Da questo punto di vista, puramente formale ma anche retorico-espressivo, le due canzoni di Vecchioni e Al Bano rientrano esattamente nella stessa categoria, rivelandosi molto più antiche—per esempio—della già citata canzone festivaliera di Endrigo, Canzone per te (composta e interpretata con grande successo quasi mezzo secolo fa). In quel caso due strofe contrastanti, entrambe bellissime nella loro autentica e disadorna semplicità (in realtà solo apparente ed irta di raffinatezze), si alternavano armoniosamente—nella tipica struttura del cosiddetto Chorus-Bridge, AABA—per veicolare un testo malinconico-sentimentale che, a detta dello stesso autore “si ricordava perché non diceva niente di profondo”. Mi chiedo se sia davvero questo il caso di versi universali, tutt’altro che superficiali o innocui, come quelli anche solo dell’incipit: “La festa appena cominciata / è già finita”. La grande impresa di Endrigo, con l’apporto non secondario di Bardotti, fu proprio quella di conquistare il pubblico sanremese (incluso un entusiastico Claudio Villa!) sussurrandogli quasi una canzone d’amore così triste eppure così realisticamente colloquiale, così banale eppure aperta a più chiavi di lettura, così apparentemente semplice ma anche varia e ben costruita, da ogni punto di vista ridotta a pura sostanza, che non avesse alcuna pretesa né di trasmettere ‘messaggi’ di sorta (impegnati o rassicuranti che fossero), né di trascinare gli ascoltatori nell’orgasmo, troppo spesso simulato, del solito ritornello festivaliero.
Mi duole dover constatare che questi ultimi tratti negativi si applicano al caso di Chiamami ancora amore forse ancor più che a quello di Amanda è libera: entrambe le canzoni, in ogni senso, appaiono già sorpassate, persino e anzi soprattutto se poste al confronto di Canzone per te. Bisogna ammettere che anche Vecchioni, un po’ come Al Bano (e come lo stesso Modugno di Nel blu dipinto di blu), ha fatto un ottimo lavoro nel legare la Strofa al Ritornello, agendo soprattutto sul piano melodico: passando dall’una all’altro assistiamo alla progressiva messa a fuoco di un motivo chiave che ha modo di nascere ed affermarsi—quanto insistentemente però—solo nel refrain; alla naturalezza logica di questo passaggio, almeno la prima volta, contribuisce anche la concatenazione rimica fra “dolore” (ultimo verso della seconda Strofa) e “amore” (primo verso del Ritornello). Il problema non è il dettaglio tecnico—in sé apprezzabile—ma il discorso complessivo, musicale e verbale, che esso contribuisce a promuovere: soprattutto, la ‘novità’, ‘necessità’ e ‘autenticità’ di tale discorso.
La musica di entrambe le sezioni, anzitutto, ho subito avuto la spiacevole sensazione di averla già ascoltata in passato, e anche molte, troppe volte (anche da questo punto di vista, la canzone di Al Bano—persino quella—mi è sembrata più originale). Era solo un’impressione, la mia, ma era reale, non la potevo nascondere, ed ha certo contribuito ad accrescere quel vago senso di fastidio. La sentivo come il frutto ibrido dell’innesto fra lo stile quasi-recitativo e indignato di un cantastorie verace, tipo Francesco Guccini, e la pacchiana estroversione melodicheggiante di un sanremese doc tipo, chessò, Umberto Tozzi? In effetti—come poi segnalatomi dall’amico Claudio Cosi—la Strofa di Vecchioni assomiglia a quella gucciniana di Addio (dall’album Stagioni, 2000, ma scritta l’anno prima come una sorta di amaro bilancio di fine millennio): in un canto strofico realmente indignato, profondamente addolorato, ma volutamente incapace di esplodere in ritornello, colui che si definiva “chierico vagante, bandito di strada, non artista” diceva per sempre addio proprio a quel mondo (perfettamente rappresentato dal Festival) che nel decennio successivo si sarebbe affermato come forse neanche lui, Guccini, avrebbe osato immaginare; diceva addio, fra l’altro, “a tutte le vostre cazzate infinite, / riflettori e paillettes delle televisioni”, “a chi si dichiara di sinistra e democratico / però è amico di tutti perché non si sa mai”, “ a questo orizzonte di affaristi e d’imbroglioni […] ricolmo di nani, ballerine e canzoni”; e infine cedeva alla tentazione della parafrasi colta, dedicando l’intera canzone “a te, […] ipocrita uditore, mio simile… / mio amico…” (cfr. Baudelaire, Fleurs du mal, prefazione Au lecteur: “Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frere!”).
Ebbene, su una musica recitativa abbastanza simile a quella di Guccini (ma ora muovendosi perfettamente a suo agio sotto quei “riflettori delle televisioni”), Vecchioni sembra quasi voler aggiornare l’elenco dei soprusi e degli orrori, utilizzando un linguaggio ancor più esplicito, sovrabbondante di figure retoriche. A partire dalle iperboli iniziali: “E per la barca che è volata in cielo / che i bimbi ancora stavano a giocare / che gli avrei regalato il mare intero / pur di vedermeli arrivare”. A cosa possano alludere tutte queste iperboli strappacuore non mi sembra poi così difficile immaginarlo. Eppure, poco dopo il trionfo sanremese, ospite di Fabio Fazio, Vecchioni ha sentito il bisogno di spiegarci che “i bambini, all’inizio, avrei potuto dirlo che erano i figli degli immigrati durante la traversata – non l’ho detto perché sarei stato retorico”. Forse più o meno inconsciamente, si riferiva ai versi—ancor più scopertamente e melensamente dedicati alla realtà degli immigrati—di un’altra canzone festivaliera, Gli altri siamo noi, cantata venti anni prima da Umberto Tozzi su una musica a sua volta imparentata, seppur solo nel’armonia, col Ritornello di Vecchioni? (Per inciso, la melodia ritornellata di Tozzi—diversa da quella di Vecchioni—l’aveva già scritta Mozart nella sonata K.331, 1° movimento, Andante grazioso, quarta variazione, cui dev’essersi ispirato anche Phil Collins dei Genesis, in una canzone sepolta nella mia memoria...)
Ma la nuova lista, quella recitata in stile cantautoriale da una strofa e l’altra di Chiamami amore, coinvolge naturalmente un repertorio molto più ampio di orrori, frustrazioni e soprusi, denunciati con un tono di crescente indignazione. Non poteva certo mancare “il poeta che non può cantare”. Chi mai sarà se non lui stesso, più volte autodefinitosi tale? O forse no, visto che con la sua stessa esibizione sul palco dell’Ariston, dall’esito addirittura trionfale, sta dimostrando l’esatto contrario? Può anche darsi, poi, che abbia in mente quegli altri “tre o quattro” poeti-cantanti, non di più, che—oltre a lui stesso (“ci sono anch’io… però non sempre e non tutto, perché a volte mi trovo in disaccordo”)—Vecchioni ebbe modo di menzionare in occasione di un convegno senese dedicato al rapporto far poesia e canzone (cfr. l’intervento riportato nel libro Il suono e l’inchiostro, Milano, Chiare Lettere, 2009, p. 368). È curioso, però, che grandi autori come Guccini o De André (per non parlare di un Dylan o di un Buarque), diversamente da Vecchioni, abbiano sempre rifiutto il titolo di ‘poeta’, preferendo magari essere considerati alla stregua di ‘cantastorie’ o di novelli ‘trovatori’, ‘giullari’, e simili: dovremmo dunque escluderli dalla rosa dei potenziali candidati? Ma la nuova rassegna del ‘poeta’ Vecchioni continua: si va dagli operai disoccupati ai ventenni mandati a morire in guerre inutili (travestite da misioni di pace), fino agli studenti manifestanti “che difendono un libro, un libro vero / così belli a gridare nelle piazze / perché stanno uccidendo il pensiero”, mentre quel “bastardo”, alla faccia loro, “sta sempre al sole”… E chi potrà mai essere questo “bastardo”? Forse il premier?—azzarda l’audace intervistatore di “Repubblica”, 10 marzo)—sentendosi rispondere: “Certo, ma lo lascio immaginare”. E e poi c’è il vigliacco senza cuore, e poi la “nostra memoria gettata al vento / da questi signori del dolore”. Devo continuare? Magari con le “idee” che “sono come farfalle / che non puoi togliergli le ali / perché le idee sono come le stelle / che non le spengono i temporali”? (E qui ritornano alla mente versi come “Io conosco poeti che spostano i fiori col pensiero”—tratto da Sogna ragazzo sogna, 1999, di cui Chiamami ancora amore, a detta dello stesso autore, vorrebbe essere la prosecuzione.)
Solo nel Ritornello vero e proprio, però, tutte queste ondate di denuncia recriminatoria e antirepressiva si risolvono nell’esplosione di una più positiva invocazione d’amore e speranza (a quanto pare rivolta anzitutto alla moglie dell’autore, la giornalista e scrittrice Daria Colombo): “chiamami—ancora o sempre—amore”, perché “questa maledetta notte / dovrà pur finire, / perché la riempiremo noi da qui / di musica e parole”. Qualcuno, a questo punto, avrà provato un grande senso di sollievo: per fortuna che ci siete Voi, che, da lì, ci verrete a salvare con le vostre… canzoni, sì, quelle fatte di musica e parole… che bello, grazie! Altri ascoltatori, meno sensibili o semplicemente più disattenti, si saranno invece chiesti: Voi? Ma voi chi? E da lì dove? E, soprattutto, perché? Niente paura, il dubbio viene sciolto proprio nella chiusa della canzone (dopo che il verso del titolo è stato ripetuto ossessivamente, come in un disco rotto, per oltre venti volte): “perché noi siamo amore”. (Leggi: se è vero che ‘la bellezza salverà il mondo’, e che solo i veri poeti come Me—quelli che la bellezza la conoscono davvero, e ancora credono in lei—solo Loro, solo Noi, potremo salvare il mondo. Non preoccupatevi, voi poveri mortali, che ci pensiamo Noi).
Anche a pronunciarli così come sono, questi versi sono pura retorica mascherata da ‘poetico realismo’ (volendo parafrasare ancora una volta la formula del Club Tenco). Corrado Augias (“Repubblica” del 25 febbraio)—pur in esclusivo riferimento a “che questa maledetta notte / dovrà pur finire”—parla invece di “parole semplici”, di “speranza”, paragonabili addirittura a quelle affidate da Brecht a Galileo (“La notte più lunga eterna non è”). Quella di Vecchioni è, sì, una retorica dissidente, ‘di antiregime’ se vogliamo, che potrebbe persino avere un qualche senso se legata—chessò—a… un sistema di pensiero? a una posizione politica? Ma è lo stesso autore, ancora una volta, a metterci in guardia: “Ci tengo a dire che non voglio che gli venga data alcuna coloritura politica”. Oppure: “Non vedo abissi di differenza tra destra e sinistra. Il probema è quell’uomo, quello lì e basta” (su “La Repubblica” del 20 febbraio, a Giuseppe Videtti). Ed è una retorica, purtroppo, anche tipicamente sanremese: paternalistica, consolatoria, populistica, artificiosamente proiettata verso un futuro che—così espresso—non riesce ad assomigliare vagamente neanche a un abbozzo di utopia. Sia ben chiaro, non discuto certo le idee di cui Vecchioni si fa qui (esplicitissimo) portavoce e divulgatore; idee che anzi condivido senza riserve: non se ne può più, dobbiamo uscire dall’incubo in cui ci troviamo intrappolati da almeno vent’anni, ed anche gli artisti, i poeti, i cantautori, insieme agli studenti, agli operai, etc. etc. possono e anzi devono dire la loro, manifestare il loro dissenso, trovare insieme motivi di speranza (io ero con loro, alle manifestazioni). Come non essere d’accordo su ovvietà che ormai da tempo hanno iniziato ad assumere una pervasività anche trasversale? Il problema è il come, il dove e il quando esse vengono improvvisamente sbandierate: perché solo ora, a Sanremo, con un linguaggio così—lo ripeto—insopportabilmente retorico e iperbolico (per di più con la sfacciata pretesa che tale esso non sia)? Oppure sono io che non sono in grado di coglierne tutte le sfumature di ‘poetico realismo’?
Ma il problema è anche lo specifico linguaggio musicale, non solo verbale, con cui Vecchioni ha scelto di veicolare ed amplificare il suo appassionato grido di dolore, amore e speranza. Un aspetto, questo, di cui ovviamente nessun commentatore parla, come se fosse insignificante. Tralasciando l’intonazione quasi recitativa della Strofa, di cui ho già parlato, è soprattutto il Ritornello che colpisce non solo per la sua banalità, ma anche e soprattutto per la sua scarsa originalità. Il motivo portante, di cui sopra, è fondato sulla ripetizione a varie altezze di una formula melodico-armonica stereotipata: accordo maggiore di tonica allo stato fondamentale (in questo caso La) con appoggiatura di quarta tenuta e risolta sulla terza (Re>Do#) seguito da accordo di dominante (Mi) con appoggiatura di sesta risolvente su quinta (Do#>Si), etc. etc. Al primo ascolto mi erano venuti in mente almeno due Ritornelli precedenti: quello iperdiastolico di Gloria, ennesima perla del nostro Umberto Tozzi (1979) e, ancor più distintamente, quello di The best (Chapmann-Knight) nell’interpretazione non meno enfatica ed anche più urlata di Tina Turner (1989): da “Glória, glorïá / manchi come l’arïá…”, passando attraverso “You are simply the best, / better than all the rest”, approdiamo infine a “Chiamami ancora amore, / chiamami sempre amore”. Credevo fosse questo, più o meno, il tragitto da ripercorrere. In realtà mi sbagliavo, come mi ha fatto prontamente notare un altro amico e collega, Alessandro Bratus (che di questo repertorio è molto più esperto di me). Bisogna infatti risalire ad un’altra e ancor più antica canzone dello stesso Roberto Vecchioni, Alighieri (incisa nell’album Ipertensione, 1975): il testo è diverso, naturalmente (e varrebbe la pena leggersi bene anche quello!), ma la musica, nella sua integrale articolazione melodica e armonica, è praticamente uguale:
Quel che prima era un canto strofico a suo modo anche piacevole nella sua sobrietà—alternato a frammenti di monologo o dialogo comunque parlati (fra i quali emerge anche un “Chissà perché Francesco non capisce mai gli altri?”—e chi sarà mai questo Francesco?)—36 anni dopo risorge in forma ben più appassionata e sguaiata di Ritornello sanremese.
L’autocitazione è talmente evidente, insomma, che siamo ai limiti del contrafactum. Per carità, non c’è niente d’insolito, niente di particolarmente deprecabile. Si tratta di una prassi antichissima, che ha fra i suoi rappresentanti fior di compositori della tradizione classica—quali Monteverdi, Händel o Rossini—nonché una schiera di altrettanto autorevoli cantautori. Se non fosse che questa volta l’autore, oltre a tacere il suo riciclaggio, pretende di proporcelo come una novità assoluta, persino come un coraggioso atto rivoluzionario, in grado magari di dare uno scossone rivitalizzante alla nostra povera canzone italiana.
In un’infinità d’interviste—rilasciate poco prima, durante e subito dopo il Festival—Vecchioni ha più volte spiegato in cosa dovrebbe consistere questa svolta epocale. In sostanza: il cantautore, che a suo avviso rappresenterebbe la sfera ‘colta’, dovrebbe anzitutto scendere dalla sua ‘torre d’avorio’ per aprirsi al ‘grande pubblico’, sforzandosi di parlare un linguaggio più ‘semplice’, ‘lineare’, ‘spontaneo’, magari anche ‘sgrammaticato’, ma comunque ‘bello’ in quanto ‘vero’ e ‘originale’; questo suo nuovo linguaggio, insomma (e qui arrivano puntuali i dotti riferimenti alle definizioni di un Tullio De Mauro o di un Roberto De Simone), deve saper essere ‘popolare’ senza scadere nel ‘popolaresco’, ossia nella falsa imitazione del popolare, quella fatta “per fregare la gente” (espressione usata da Vecchioni nella già citata intervista televisiva a Fazio).
Pur avendo la netta impressione che una canzone scopertamente festivaliera, stereotipata e tutt’altro che originale come Chiamami ancora amore si approssimi alla categoria ‘popolaresca’ assai più che a una delle altre due (‘colta’ o ‘popolare’), non mi sognerei mai di pensare che Vecchioni l’abbia composta e interpretata sul palco dell’Ariston allo scopo ultimo di “fregare la gente”. Il mio dubbio, in realtà, è ancor più atroce. Da ‘poeta-professore-cantante’ di estrazione ‘colta’, quale lui evidentemente si ritiene, Vecchioni ha creduto di scrivere un’autentica ‘canzone popolare’—e non una qualsiasi, ma proprio quella che moltissimi italiani (me compreso) stavano da tempo aspettando. Sono anche certo che lo abbia fatto in buona fede, come ci conferma anche l’alto grado di coinvolgimento psico-fisico ed emotivo della sua performance sanremese, evidente su entrambi i piani vocale e gestuale. Lui stesso è sincero, lo so bene, quando afferma che una canzone è “vera perché la senti veramente quando la scrivi, quando la canti” (da una dichiarazione a “Rockol” edita su YouTube). Ma si può dire che abbia effettivamente raggiunto lo scopo? Stando al coro unanime dell’ufficiale stampa di centro-sinistra, ahinoi!, si direbbe proprio di sì. Stando non tanto al mio gusto personale, quanto semmai ai dati oggettivi emersi da questo breve assaggio analitico, l’impressione è che Vecchioni, credendo di scrivere una nuova ‘canzone popolare’, ne abbia inconsapevolmente riscritto una tanto vecchia quanto (per usare il termine a lui caro) ‘popolaresca’!
* * *
Pongo fine a questa ondata amara di eretici pensieri con una nota positiva, anche se tutt’altro che consolatoria (o ‘buonistica’, come direbbe l’amico Lello). Già, perché al Festival, per fortuna, c’era anche un altro Roberto, il quale, diversamente dall’ufficiale vincitore, non si è presentato all’Ariston “per vincere”, ma, forse, per dimostrarci anche, con la sua sola voce, che oggi è ancora possibile ‘cantare’; e che chi sa davvero cantare può persino riuscire a rivelare la bellezza che vive in ogni cosa, anche in quella apparentemente più brutta. L’inno nazionale italiano, almeno così ho sempre pensato, è uno dei più brutti che siano mai stati concepiti nell’intera storia della civiltà umana. Eppure quell’altro Roberto lì non solo ce ne ha restituito il senso letterale e vitale (checché ne dica, sul “Manifesto”, uno storico come Alberto Mario Banti), ma lo ha fatto di nuovo ‘cantare’ dal di dentro, illuminandolo di un senso che—almeno a me—era sempre sfuggito. In quel canto puro, a cappella, perfettamente intonato, quasi sussurrato eppure potente, sobrio e controllato ma profondamente emozionato, talora interrotto da pause naturalissime perché realmente sentite, quel Roberto lì (diversamente dall’altro) ci ha fatto sentire tutti i suoni e le inflessioni di una canzone: una canzone vera, che poi ognuno di noi potrà decidere se considerare più o meno ‘popolare’, più o meno ‘colta’… ma tutto tranne che ‘popolaresca’ (sempre nell’accezione demauriana e vecchioniana del termine). Ed era tutta lì, insomma, non altrove, la vittoria.
Mentre l’altra festa, quella cominciata qualche giorno dopo in conclusione alla finale di Sanremo (e tutt’ora in pieno corso), sin da allora, almeno per me, era già finita…
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